giovedì 23 agosto 2007

"Io e Bergman (quando ti telefona un genio)" di Woody Allen

Io e Bergman (quando ti telefona un genio)

di WOODY ALLEN


La notizia della morte di Bergman l'ho ricevuta a Oviedo, una graziosa cittadina nel nord della Spagna dove sto girando un film. Il messaggio telefonico di un amico comune mi è stato recapitato sul set. Bergman mi disse una volta che non voleva morire in una giornata di sole e poiché non ero presente, posso solo sperare che abbia avuto quel tempo piatto nel quale lavorano al meglio tutti i registi. L'ho detto già in passato a persone che hanno un'idea romantica degli artisti e che considerano la creazione artistica qualcosa di sacro: alla fine, l'arte non ti salva. Non importa quanto sublimi siano le opere che realizzi (e Bergman ci ha dato un menù di sbalorditivi capolavori del cinema), non ti proteggeranno dal fatale bussare alla porta che interrompe il cavaliere e i suoi amici alla fine de Il settimo sigillo. E così, in una giornata di luglio, Bergman, non è riuscito a rimandare il suo inevitabile scacco matto e il miglior cineasta dei miei tempi se n'è andato. Qualche volta ho scherzato dicendo che l'arte era come il cattolicesimo degli intellettuali, forniva il desiderio di intravedere una vita dopo la morte. Ma per come la vedo io, è meglio continuare a vivere nel proprio appartamento che nei cuori e nelle menti del pubblico.
Ed è certo che i film di Bergman continueranno a vivere e a essere visti nei musei e in televisione e venduti in Dvd. Ma, conoscendolo, questa non poteva che essere una magra consolazione e sono sicuro che avrebbe barattato con piacere ognuno dei suoi film per un ulteriore anno di vita. Ciò gli avrebbe dato altri sessanta compleanni per continuare a realizzare film. E non ho dubbi che è così che avrebbe impiegato il tempo guadagnato: facendo ciò che amava fare più di qualsiasi altra cosa, girare dei film. A Bergman piaceva il processo della realizzazione. Gli importava molto meno la risposta che i suoi film suscitavano. Gli faceva piacere che si apprezzasse il suo lavoro, ma una volta mi disse: "Se il mio film non piace, ciò mi crea problemi... per circa 30 secondi". Non gli interessavano i risultati al botteghino, anche se i produttori e i distributori lo chiamavano regolarmente comunicandogli gli incassi dei weekend: quei numeri gli entravano da un orecchio e gli uscivano dall'altro. Diceva: "Verso la metà della settimana, i loro pronostici follemente ottimistici si saranno ridotti a niente". Il plauso della critica gli faceva piacere, ma non ne aveva bisogno nemmeno per un secondo e se è vero che ci teneva che gli spettatori si godessero il suo lavoro, è altrettanto vero che non sempre li aiutava. Eppure, i suoi film più difficili da decifrare ben valevano lo sforzo. Per esempio, quando si capiva che le due donne de Il silenzio sono soltanto due aspetti in lotta di un'unica donna, questo enigmatico film si apriva in tutto il suo fascino. Oppure, avere fresca in mente la filosofia danese prima di vedere Il settimo sigillo o Il volto certamente avrebbe aiutato, ma il talento di Bergman nel raccontare storie era talmente straordinario che riusciva a incantare gli spettatori anche con un materiale difficile. Mi è capitato spesso di sentire dire dalle persone che avevano visto un suo film: "Non ho capito esattamente quello che ho appena visto, ma ogni singolo fotogramma mi ha tenuto aggrappato al bordo della poltrona".
Bergman restava devoto al teatro - era anche un grande regista di teatro - ma il suo lavoro cinematografico non ha tratto idee soltanto da lì; lui ha attinto alla pittura, alla musica, alla letteratura e alla filosofia. Il suo lavoro ha indagato le ansie più profonde degli uomini, dando spesso un inusitato spessore a queste poesie di celluloide. Morte, amore, arte, il silenzio di Dio, la difficoltà dei rapporti umani, l'agonia del dubbio religioso, i matrimoni falliti, l'incapacità delle persone di comunicare tra loro. Ma era una persona calorosa, divertente, con un carattere scherzoso, insicura di fronte ai suoi immensi talenti e che stava bene con le donne. Incontrarlo non voleva dire entrare repentinamente nel tempio creativo di un genio formidabile, oscuro, meditabondo e che incuteva soggezione con profonde e complesse riflessioni, espresse con accento svedese, sullo spaventoso destino dell'uomo in un desolato universo. Tutt'al più poteva uscirsene così: "Woody, ho fatto ancora quello stupido sogno in cui mi presento sul set per girare e non riesco a decidermi su dove collocare la macchina da presa; il fatto è che è una cosa che ormai so fare abbastanza bene e che faccio da anni. Ti capita mai di fare questi sogni ansiosi?" Oppure: "Pensi che sarebbe interessante girare un film dove la cinepresa non si muove neanche di un centimetro mentre gli attori entrano ed escono dall'inquadratura? Oppure farebbe ridere la gente?". Cosa si risponde al telefono a un genio? Non mi pareva che quella fosse una buona idea, ma sono convinto che nelle sue mani sarebbe potuta diventare qualcosa di speciale. Dopotutto, anche il vocabolario da lui inventato per indagare la profondità della psiche degli attori sarebbe apparso ridicolo a chi studiava cinematografia. Nelle scuole di cinema (fui cacciato dalla New York University abbastanza presto quando studiavo per la specializzazione negli anni Cinquanta) l'enfasi era sempre sul movimento. Queste sono immagini in movimento, si insegnava agli studenti, e la macchina da presa dovrebbe muoversi. E i professori avevano ragione. Ma quando Bergman collocava la macchina da presa fissa sul volto di Liv Ullmann o di Bibi Andersson e lì la lasciava e non la spostava e il tempo passava, allora accadeva qualcosa di strano e meraviglioso, dovuto solo alla sua genialità. Lo spettatore era preso dal personaggio e nessuno si annoiava. Al contrario, si era entusiasti.
Bergman, con tutte le sue idiosincrasie e ossessioni filosofiche e religiose, aveva un senso innato per raccontare le storie e quindi era inevitabile che fosse in grado di intrattenerti anche quando nella sua mente era intento a sceneggiare le idee di Nietzsche o di Kierkegaard. Ero solito restare a lungo al telefono con lui. Erano telefonate dall'isola in cui viveva. Non accettavo i suoi inviti per andare a trovarlo perché viaggiare in aereo non mi piaceva. Inoltre non avrei apprezzato un volo su un minuscolo aeroplano con il quale avrei raggiunto un puntino vicino alla Russia per quello che immaginavo sarebbe stato un pranzo a base di yogurt. Parlavamo sempre di film e naturalmente lasciavo parlare lui la maggior parte del tempo, perché sentivo che era un privilegio ascoltare i suoi pensieri e le sue idee. Lui proiettava per sé un film ogni giorno e i film non si stancava mai di vederli. Di ogni tipo, muti e sonori. Per addormentarsi guardava una cassetta di quel tipo di cinema che non lo costringeva a pensare e che lo aiutava a rilassarsi dall'ansietà, qualche volta un film di James Bond. Come tutti i grandi maestri del cinema - Fellini, Antonioni o Buñuel, per esempio - Bergman ha avuto i suoi critici. Ma se si escludono dei lapsus occasionali, i film di questi artisti hanno colpito profondamente milioni di persone in tutto il mondo. In effetti, sono coloro che meglio conoscono il cinema, coloro che lo fanno - registi, sceneggiatori, attori, direttori della fotografia, montatori - a provare il maggior rispetto per il lavoro di Bergman. Poiché per decenni ho cantato le sue lodi tanto entusiasticamente, quando è scomparso mi sono arrivate richieste di commenti o interviste. Come se avessi avuto qualcosa di efficace da aggiungere alla triste notizia, se non proclamare semplicemente la sua grandezza. Mi è stato chiesto quale era stata per me la sua influenza. Come avrebbe potuto influenzarmi? Ho risposto: lui era un genio e io non sono un genio, e la genialità non può essere insegnata. Quando Bergman iniziò a essere conosciuto nelle cineteche di New York come un grande autore cinematografico, io ero un giovane commediografo e un comico di night-club. Si può subire l'influenza di Groucho Marx e di Ingmar Bergman? Una cosa sono riuscito ad apprendere da lui, qualcosa che non dipende dalla genialità e nemmeno dal talento, qualcosa che può essere nei fatti imparata e sviluppata. Parlo di ciò che spesso si chiama con poca precisione etica del lavoro, ma che in realtà è semplice disciplina. Ho imparato dal suo esempio a cercare di fare il meglio possibile in un dato momento, senza cedere all'assurdo mondo dei successi e dei flop, senza rassegnarsi a entrare nello sfavillante ruolo del regista, realizzando invece un film per poi passare a quello successivo. Bergman ha girato nella sua vita circa 60 film, io ne ho girati 38. Se non posso raggiungere la sua qualità, forse potrò avvicinarmi alla sua quantità.
Copyright The New York Times Syndicate. Traduzione di Guiomar Parada
(23 agosto 2007)

lunedì 20 agosto 2007

Presbiopia italiana

Perché la 'ndrangheta, al contrario di Hamas, non trova alcun posto nell'agenda politica? Perché non riesce a diventare né una priorità la distruzione di un'organizzazione criminale capace di controllare un terzo del traffico di cocaina del mondo con profitti per decine di miliardi di euro né un'urgenza il riscatto di una regione dove operano 112 cosche, c'è un'intensità criminale del 27 per cento (pari a una persona su quattro), con un epicentro nel Reggino di 4-5 mila affiliati su una popolazione di 576 mila abitanti?

da G. D'Avanzo, "La politica dell'inazione", Rep. 17/8/07


domenica 12 agosto 2007

La certezza della pena (negli Usa)

In Italia condanne pluriennali si traducono in pochi giorni di carcere (o nessuno). Negli Stati Uniti le cose vanno diversamente. Qui sotto l'articolo di M.Gaggi, Corr. 11/08/07.

Stati Uniti, in galera a 83 anni «Ha ingannato gli azionisti»

John Rigas, l' uomo che ha fondato e diretto per alcuni decenni, fino alla bancarotta del 2002, Adelphia, uno dei più grandi operatori di tv via cavo, entrerà domani nel carcere di Rochester, nel Minnesota, per scontare una pena di 15 anni, dopo che la sentenza emessa tre anni fa è stata recentemente confermata in appello. Lo stesso giorno suo figlio Tim inizierà un periodo di detenzione di 20 anni nel carcere di Elkton, in Ohio. John Rigas, il figlio di immigrati greci che era la perfetta incarnazione del «sogno americano» (da garzone di bottega a imprenditore miliardario) fino a quando non è stato accusato di frode a danno degli azionisti (2,3 miliardi «prestati» da Adelphia alla famiglia senza scriverlo nel bilancio) sta per compiere 83 anni e ha seri problemi di salute: è sordo, vede con un solo occhio ed è in cura per un cancro alla vescica, ora in remissione. Nulla di tutto questo gli risparmierà il carcere: i 15 anni già sono il frutto di uno sconto di pena concesso per l' età avanzata. Come estrema concessione, il giudice ha stabilito che il vecchio imprenditore potrà essere rilasciato dopo i primi due anni di detenzione, ma solo se il medico del carcere certificherà che gli rimangono meno di tre mesi da vivere. La severità della pena è un tratto caratteristico del sistema giudiziario degli Stati Uniti, un Paese con oltre due milioni di detenuti (compresi quelli agli arresti domiciliari): un livello che supera di circa dieci volte non solo l' Italia, ma anche altre nazioni europee come Francia e Germania. E sulla criminalità finanziaria il pugno della giustizia Usa in questi anni è stato particolarmente duro. Bush è considerato il presidente che più ha cercato di piegare il potere giudiziario alla volontà dell' Esecutivo (i giudici nel sistema americano sono eletti o vengono nominati dal governo) ed anche quello che ha maggiormente cercato di favorire il mondo degli affari. Proprio per questo, quando all' inizio del decennio Wall Street fu sconvolta dagli scandali finanziari, molti pensarono che tutto si sarebbe risolto in una serie di processi-farsa. Ma Bush varò una severissima legge di riforma della contabilità - la Sarbanes-Oxley, che ha appena compiuto i cinque anni - e promise che nei tribunali la «corporate America» non avrebbe goduto di un occhio di riguardo. Promessa mantenuta: da Dennis Kozlowski di Tyco a Bernie Ebbers di WorldCom, da Joseph Nacchio di Qwest a Jeffrey Skilling della Enron, le condanne per i crimini dei «colletti bianchi» sono state durissime. L' ultimo della serie è Lord Conrad Black, il «barone» dei giornali, un anziano imprenditore canadese condannato dal tribunale di Chicago per le irregolarità commesse negli Usa dalla Hollinger International: ora rischia fino a 35 anni di carcere. Kenneth Lay, gran capo di Enron e amico personale di Bush (era l' imprenditore più influente del Texas quando l' attuale presidente era governatore dello Stato) ha evitato il carcere solo per un infarto che l' ha ucciso un mese prima dell' inizio della detenzione. Pene severe, «esemplari», volte a dimostrare agli americani che nessuno può comprare l' impunità e ai mercati che l' America rimane il posto più sicuro nel quale investire. Ma anche condanne che spesso, proprio a causa di questi obiettivi, provocano un accanimento eccessivo e lasciano spazi alla giustizia-spettacolo. Il caso dei Rigas sembra essere uno di questi. John, il fondatore, ha sempre rifiutato di dichiararsi colpevole, sostenendo che quelli commessi dall' Adelphia sono stati solo errori e «leggerezze» contabili di cui, prima del caso Enron, nessuno si sarebbe accorto. «Ci siamo trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato», ha detto al quotidiano Usa Today. Andare in carcere senza patteggiare «è il mio modo di dire ai nipoti che non devono vergognarsi della loro famiglia». Una famiglia comunque devastata. Di quello che John Rigas ha costruito in mezzo secolo (cominciò comprando un cinema a Coudersport, in Pennsylvania, nel 1951) non resta più nulla (i pezzi della società andata in bancarotta sono finiti a Time Warner e alla Comcast). E con John sono stati condannati anche i figli: non solo Tim, ma anche Michael che, però, se l' è cavata con dieci mesi di arresti domiciliari. La famiglia ha chiesto che padre e figlio siano detenuti nello stesso luogo, in modo da facilitare le visite, ma nemmeno questo è stato, al momento, concesso. L' ultima speranza di John e Tim è una revisione del processo, visto che il principale testimone d' accusa, l' ex vicepresidente di Adelphia per le attività finanziarie, James Brown, in un recente giudizio civile ha raccontato una «verità» molto diversa da quella da lui presentata nel processo del 2004. Allora Brown aveva dichiarato di aver mentito agli azionisti sulla natura di quel fondo di 2,3 miliardi su pressione dei Rigas. Ora ha invece detto di non aver mai detto il falso alla società di revisione contabile e agli azionisti sulla riclassificazione del debito di Adelphia e sull' operazione di «co-borrowing» dei miliardi finiti alla famiglia. Fin qui il governo - che ha tempo fino al 7 settembre per decidere - non ha accettato la richiesta di celebrare un nuovo processo e del resto, spiegano gli esperti, i giudici federali sono sempre molto restii a riaprire un caso quando un teste, anche importante, cambia a distanza di anni la sua versione dei fatti. Nessuno pensa che i Rigas siano stati vittima di un errore giudiziario, ma certo la volontà dell' Amministrazione di usare il caso come un esempio e un monito per tutti è costata loro cara: il vecchio John ricorda che nel luglio del 2002, quando fu emesso il mandato di cattura, i Rigas offrirono di consegnarsi in un commissariato, evitando la «gogna» mediatica. Furono invece arrestati e ammanettati al centro di New York davanti alle telecamere di tutte le reti americane. «Volevano lo spettacolo», commenta il capostipite che oggi dice di sentirsi come Gary Cooper nella scena finale di Mezzogiorno di fuoco: solo contro tutti. In effetti gli amici del potente tycoon di un tempo sono tutti svaniti. Solo nelle chiese della sua Coudersport pregano per lui.

giovedì 9 agosto 2007

Morto a 16 anni durante uno "stage" in cantiere

Un giovane operaio edile di soli 16 anni è morto a San Candido, in Alto Adige, per il crollo della volta di una cantina in cui stava lavorando. La vittima è un ragazzo del posto che era appena sceso nella cantina di un vecchio edificio dove erano in corso lavori di ristrutturazione.

L'incidente è avvenuto in un vecchio edificio del centro storico della cittadina, in questo periodo affollatissima di turisti. Il ragazzo - Christian Schwingshackl, di San Martino in val Casies, uno studente che d'estate lavorava come stagionale - era appena sceso nella cantina quando sulla volta c'è stato un crollo e si sono staccati grossi sassi che l'hanno colpito alla testa. Subito sono scattati i soccorsi e sul posto è arrivato in ambulanza un medico che lo ha soccorso facendolo subito dopo atto ricoverare nell'ospedale cittadino. Le condizioni del giovane si sono però presto aggravate e così è stato deciso di trasferirlo in elicottero al più attrezzato ospedale di Brunico. Ma il brutto tempo, con nuvole e pioggia, ha impedito all'elicottero di alzarsi in volo. Così il ragazzo è stato trasportato in ambulanza sino a Brunico, ad una quarantina di chilometri da San Candido. Ma quando vi è arrivato per lui non c'era più niente da fare.


da unita.it

domenica 5 agosto 2007

Lo Stato italiano vende missili alla Libia attraverso Finmeccanica

Tutti i giornali italiani si sono scandalizzati perchè la Francia di Sarkozy ha venduto missili alla Libia. Peccato che la società Mbda che ha ottenuto il contratto da 168 milioni di euro è una joint venture fra la francese Eads, la britannica Bae Systems e, pensate un po' chi, l'italianissima Finmeccanica (che possiede il 25% del capitale). Finmeccanica a sua volta è al 32,45% dello Stato attraverso il ministero dell'economia e delle finanze. Almeno si evitassero le prediche ai francesi.

ps: la notizia è stata rivelata da Le Monde. Cosa sarebbe successo se Finmeccanica avesse avuto il 100% di Mbda? Viene il sospetto che non si sarebbe saputo nulla.

Se «Sviluppo Italia» è «Sviluppo Parenti»

In Calabria l’agenzia conta 34 assunti tra figli, fratelli e consanguinei. Di destra e di sinistra

di Gian Antonio Stella, Corr. 4/8/07

«Sviluppo Parenti»: tanto varrebbe chiamarla così, la società Sviluppo Italia. Almeno in Calabria. Tra i dipendenti di quella che doveva essere una specie di nuova Iri «ma più moderna, agile ed efficiente» per rilanciare il Sud attirando investimenti esteri, figurano infatti decine di figli, cognati, sorelle, cugini e parenti vari di politici, sindacalisti, giudici. Assunti senza concorso, per chiamata diretta. E decisi a sostenere bellicosamente d'essere stati assunti per brillanti meriti professionali.
Che la società, al di là della pomposità manageriale della «mission» dichiarata («L’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa è impegnata nella ripresa di competitività del Paese, in particolare del Mezzogiorno») sia diventata un carrozzone non è una novità. Lo sostiene il Sole 24 Ore che ne ha chiesto la chiusura perché «sbaraccare sarebbe un segnale di svolta più forte di qualunque riforma annunciata». E lo ha ammesso perfino l’amministratore delegato Domenico Arcuri: «Ho ereditato una farsa, una società con una struttura così elefantiaca che al cospetto la General Motors si intimorisce». Basti ricordare che, in attesa del drastico riordino annunciato, il gruppo è oggi un arcipelago di 181 società dotato di 492 amministratori, in larga parte legatissimi alla politica. Nelle sole «controllate» siedono 168 consiglieri di amministrazione, 93 sindaci e 78 membri degli organismi di vigilanza per un totale di 339 persone. Quanto ai dipendenti, sono 1.719, organizzati in maniera folle: il 63% negli «staff» e solo il 37% nelle «linee», da dove vengono i ricavi. Per non parlare delle gerarchie che, come ha scritto sul quotidiano economico Nicoletta Picchio riprendendo la denuncia dello stesso Arcuri, sono eccentriche: «Un dirigente governa due quadri, tutti e tre comandano 5 impiegati».
C’è poi da stupirsi se, stando ai dati Luiss Lab, Sviluppo Italia ha attratto investimenti stranieri nel triennio 2003-2005 per un totale di 297 milioni di euro contro i 760 veicolati in un solo anno, nel 2005, dalla omologa di Dublino che potremmo chiamare «Sviluppo Irlanda»? Dentro un quadro come questo, che ha spinto i vertici a giurare su una svolta netta con una riduzione del personale degli «staff» dal 63 al 20 per cento, un taglio di 601 dipendenti e una radicale ristrutturazione delle strutture periferiche, la Calabria merita una messa a fuoco. Se la Sicilia ha due sedi a Palermo e Catania, la Puglia una più due «incubatori» e la Campania ancora una più due «incubatori», l’assai meno popolata Calabria ne ha cinque. Quattro sedi a Cosenza, Crotone, Reggio e Vibo Valentia più un «incubatore» a Catanzaro. Come mai? Tutto «merito», dicono affettuosi gli amici e critici gli avversari, di quello che è stato il patriarca calabrese della società: Francesco Samengo. La cui biografia merita qualche riga perché rappresenta plasticamente le contraddizioni della macchina pubblica. Venti anni fa venne infatti passato allo spiedo dagli ispettori mandati dall’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi a capire come diavolo avesse fatto la «Carical» (Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania), a lungo feudo della Democrazia cristiana e pilastro d’una politica spendacciona e clientelare, a inabissarsi in una voragine di mille miliardi di debiti. Saltò fuori di tutto.
Mutui accordati per pagare assegni protestati. Altri accordati accendendo due o tre ipoteche sulla medesima casa. Conti in rosso da incubo tollerati in base a «una buona impressione soggettiva ». Fidi da tre miliardi di lire dati per «finanziamento campagna pesche e pomodori » a un tipo che assicurava (e nessuno controllò se fosse vero) che avrebbe avuto un contributo europeo. Prestiti astronomici concessi «in attesa incasso contributo della Regione Calabria» nonostante fosse stata accertata «l’inesistenza della contabilità interna» del cliente. Una gestione scellerata. Che sfociò in un tormentone processuale evaporato tra rinvii e assoluzioni, rinvii e prescrizioni. E in una causa civile, con richiesta di danni per 80 milioni di euro, contro vari amministratori tra i quali appunto Samengo. Allora ras della banca a Cassano Jonico. Dove una casalinga (Angelina Lione) era arrivata ad avere un mutuo dando in garanzia «costruzioni abusive» e a ottenere finanziamenti vari, secondo Bankitalia, «denunciando un patrimonio netto di 4,3 miliardi esistente solo nella sua mente». Altri, in Paesi seri, sarebbero stati spazzati via. Samengo no. E dopo qualche anno di apnea, grazie all’appoggio dell’Udc («io non ne so niente di niente», giurò Giulio Tremonti) si ritrovò nel 2002 promosso ai vertici nazionali di Sviluppo Italia da quello stesso Stato che da lui avanzava i soldi della Carical. Bene.
Ricostruito il quadro, il giornale La Provincia Cosentina ha sparato nei giorni scorsi a tutta pagina un’inchiesta di Gabriele Carchidi. Con un elenco di 34 «assunzioni clientelari riconducibili ai politici di destra e sinistra, uomini di legge e dirigenti ». Figli, nipoti, cognati, cugini... Ed ecco Nerina Pujia, figlia del potente ex parlamentare della Dc Carmelo. Carlo Caligiuri, figlio dell’ex consigliere regionale diessino Enzo. Cecilia Rhodio, figlia dell’ex presidente regionale democristiano Guido. Paola Santelli, sorella dell’ex sottosegretario alla Giustizia e oggi deputata azzurra Jole. Marco Aloise, candidato sindaco per An a Paola nel 2003. Luigi Camo, figlio dell’ex senatore ulivista Geppino, oggi presidente della Sorical. Giovanna Campanaro, nipote dell’ex deputata democristiana e oggi «loierista» Annamaria Nucci (ora assessore comunale a Cosenza) e dell’ex assessore regionale Giampaolo Chiappetta.
E poi ancora Andrea Costabile, nipote dell’ex assessore regionale e attuale senatore Udc Gino Trematerra. Ed Emilio De Bartolo, assessore comunale diessino di Rende, figlio dell’ex assessore ed ex preside della Facoltà di Economia all’Unical Giuseppe. E Giada Fedele, moglie del casiniano vicepresidente del Consiglio regionale Roberto Occhiuto. E Sandro Mazzuca, assunto con la moglie Fausta D’Ambrosio per la felicità dello zio acquisito Pino Gentile, consigliere regionale azzurro. E Antonio Mingrone, nipote dell’ex deputato forzista G. Battista Caligiuri. EGiovanna Perfetti, figlia dell’ex consigliere regionale buttiglioniano Pasqualino. E via così. Qualcuno, seccato, s’è precipitato a precisare. Paola Santelli assicura che l’assunzione è precedente all’elezione della sorella Jole in Parlamento. Il senatore mussiano Nuccio Iovene che suo fratello Daniele lavorava da anni «alla Società per l’imprenditoria giovanile» assorbita da Sviluppo Italia. Altri hanno fatto spallucce. Macché scandalo, così fan tutti...
Gian Antonio Stella

venerdì 3 agosto 2007

Morire sul lavoro a 26 anni, schiacciati da un tubo di 3 tonnellate

Domenico Occhinegro è morto a 26 anni, schiacciato da un tubo di tre tonnellate nello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto. Dopo anni di precariato, era stato da poco assunto. Tra meno di un anno si sarebbe sposato.

All'Ilva hanno perso la vita in 40 dal 1993 a oggi: 6 morti e decine di feriti solo negli ultimi due anni.

Il gruppo Riva, che possiede l'Ilva, ha chiuso il 2006 con i migliori dati di bilancio della sua storia ultracinquantennale: gli utili hanno toccato 696,4 milioni di euro, in crescita del 44% sull'anno precedente (484,3 milioni di euro) mentre il fatturato consolidato netto ha raggiunto 9.454,9 milioni di euro, l'11% in più rispetto al 2005, quando erano stati realizzati ricavi per 8.535,1 milioni.

giovedì 2 agosto 2007

"Eternit, fu strage dolosa". Per 2.969 persone

La Procura di Torino: i vertici conoscevano i rischi per la salute dei lavoratori

Duemilanovecentosessantanove. A scriverlo in lettere, in una sola riga, concentra l’impatto grafico delle 105 pagine dell’avviso di conclusione delle indagini riempite di tutti quei nomi e cognomi di ex operai Eternit, delle storie di morte o malattia di ciascuno. Per mesotelioma pleurico o al peritoneo esplosi nei loro corpi 20-30 anni dopo aver respirato in fabbrica fibre di crocidolite, amianto. Lavorate senza adeguata protezione per la salute di tutti negli stabilimenti italiani di Cavagnolo (provincia di Torino), Casale Monferrato, Rubiera (nei pressi di Reggio Emilia) e di Bagnoli.Quel «tutti» è importante: la polvere d’amianto ha ucciso anche fuori delle fabbriche. Nell’atto giudiziario compaiono anche 482 persone di Casale che non varcarono mai i cancelli Eternit. Casale è anche la comunità che più si è organizzata contro questa silenziosa strage degli innocenti: associazioni, lotte, denunce, leggi per risanare i tetti e le strade di polvere d’amianto. Altrove, come a Bagnoli, sono stati i collaboratori del procuratore aggiunto Raffaele Guariniello a fare un lavoro immane di censimento. Per riuscire a riscontrare, solo fra gli ex dipendenti Eternit in provincia di Napoli, 541 parti lese nel prossimo processo.Impressionante, tanto che uno degli avvocati che ha ricevuto l’atto giudiziario, Astolfo Di Amato, difensore di uno dei due indagati superstiti a fine inchiesta, dichiara a caldo: «La lettura del capo di imputazione determina una sensazione di dolore per il rispetto che si deve a tanta sofferenza». Il capo di imputazione svela gli sviluppi della più grande inchiesta aperta in Europa e ora pronta per il processo: due indagati, Stephan Schmidheiny (la posizione del fratello Thomas è stata stralciata) e Jean-Louis Marie Ghislain de Cartier de Marchienne. L’uno svizzero, l’altro belga, accusati di disastro doloso e omissione dolosa di norme antinfortunistiche nella «loro qualità - scrivono nell’atto Guariniello e i pm Sara Panelli e Gianfranco Colace - di effettivi responsabili della gestione della società».Si alternarono al vertice della multinazionale dei prodotti di fibrocemento: tettoie, tubi, manufatti d’uso comune rivestiti d’amianto. In particolare Stephan Schmidheiny, terza generazione della famiglia, è tuttora un personaggio: 60 anni, ha ceduto(almeno formalmente) quanto restava dell’impero Eternit (20 mila dipendenti sparsi in 20 stabilimenti nel mondo). E si è riconvertito allo sviluppo eco-compatibile. Come industriale: società di forestazione in Sudamerica. E guru: conferenze, libri (in Italia l’ha pubblicato Il Mulino). Il suo sito internet lo ritrae sorridente fra altri conferenzieri. E’ stato consigliere di Clinton su questi temi, ha parlato all’Onu e in Vaticano.L’avvocato Di Amato, suo legale, sostiene: «Il mio cliente è un obiettivo sbagliato. Non ha mai gestito gli stabilimenti italiani. E ha sempre dato impulso a misure di sicurezza nell’ambito di tutto il gruppo, dando corso a importantissimi investimenti». Guariniello e i suoi pm sostengono l’esatto contrario sulla base di una minuziosa ricostruzione di documenti Eternit che comprendono anche lettere di Stephan Schmidheiny agli amministratori del gruppo. Con le disposizioni sull’organizzazione del lavoro, sui sistemi di protezione della salute dei lavoratori, se eliminare o no l’amianto dal ciclo di produzione. Schmidheiny è stato al vertice della multinazionale dal 1972 sino a dopo la chiusura degli stabilimenti italiani (inizio anni 80). In questi tre anni di indagini i tanti investigatori e consulenti tecnici messi in campo dalla procura torinese, dopo aver accertato il primo caso che radicava la competenza territoriale dell’inchiesta qui, hanno rintracciato e convinto a testimoniare molti ex manager Eternit. Una mano ha dato loro l’associazione delle vittime d’amianto di Casale con i suoi legali. Con loro era stata aperta una trattativa per il risarcimento dei danni: a Schmidheiny, tra i più ricchi al mondo secondo la rivista americana Forbes, era stata effettivamente chiesta una somma superiore ai 100 milioni di euro. Il suo avvocato riconosce la «lealtà» degli avversari. Ma sul risarcimento è ancora notte.

Alberto Gaino, Stampa, 2/8/07