giovedì 23 agosto 2007
"Io e Bergman (quando ti telefona un genio)" di Woody Allen
di WOODY ALLEN
La notizia della morte di Bergman l'ho ricevuta a Oviedo, una graziosa cittadina nel nord della Spagna dove sto girando un film. Il messaggio telefonico di un amico comune mi è stato recapitato sul set. Bergman mi disse una volta che non voleva morire in una giornata di sole e poiché non ero presente, posso solo sperare che abbia avuto quel tempo piatto nel quale lavorano al meglio tutti i registi. L'ho detto già in passato a persone che hanno un'idea romantica degli artisti e che considerano la creazione artistica qualcosa di sacro: alla fine, l'arte non ti salva. Non importa quanto sublimi siano le opere che realizzi (e Bergman ci ha dato un menù di sbalorditivi capolavori del cinema), non ti proteggeranno dal fatale bussare alla porta che interrompe il cavaliere e i suoi amici alla fine de Il settimo sigillo. E così, in una giornata di luglio, Bergman, non è riuscito a rimandare il suo inevitabile scacco matto e il miglior cineasta dei miei tempi se n'è andato. Qualche volta ho scherzato dicendo che l'arte era come il cattolicesimo degli intellettuali, forniva il desiderio di intravedere una vita dopo la morte. Ma per come la vedo io, è meglio continuare a vivere nel proprio appartamento che nei cuori e nelle menti del pubblico.
Ed è certo che i film di Bergman continueranno a vivere e a essere visti nei musei e in televisione e venduti in Dvd. Ma, conoscendolo, questa non poteva che essere una magra consolazione e sono sicuro che avrebbe barattato con piacere ognuno dei suoi film per un ulteriore anno di vita. Ciò gli avrebbe dato altri sessanta compleanni per continuare a realizzare film. E non ho dubbi che è così che avrebbe impiegato il tempo guadagnato: facendo ciò che amava fare più di qualsiasi altra cosa, girare dei film. A Bergman piaceva il processo della realizzazione. Gli importava molto meno la risposta che i suoi film suscitavano. Gli faceva piacere che si apprezzasse il suo lavoro, ma una volta mi disse: "Se il mio film non piace, ciò mi crea problemi... per circa 30 secondi". Non gli interessavano i risultati al botteghino, anche se i produttori e i distributori lo chiamavano regolarmente comunicandogli gli incassi dei weekend: quei numeri gli entravano da un orecchio e gli uscivano dall'altro. Diceva: "Verso la metà della settimana, i loro pronostici follemente ottimistici si saranno ridotti a niente". Il plauso della critica gli faceva piacere, ma non ne aveva bisogno nemmeno per un secondo e se è vero che ci teneva che gli spettatori si godessero il suo lavoro, è altrettanto vero che non sempre li aiutava. Eppure, i suoi film più difficili da decifrare ben valevano lo sforzo. Per esempio, quando si capiva che le due donne de Il silenzio sono soltanto due aspetti in lotta di un'unica donna, questo enigmatico film si apriva in tutto il suo fascino. Oppure, avere fresca in mente la filosofia danese prima di vedere Il settimo sigillo o Il volto certamente avrebbe aiutato, ma il talento di Bergman nel raccontare storie era talmente straordinario che riusciva a incantare gli spettatori anche con un materiale difficile. Mi è capitato spesso di sentire dire dalle persone che avevano visto un suo film: "Non ho capito esattamente quello che ho appena visto, ma ogni singolo fotogramma mi ha tenuto aggrappato al bordo della poltrona".
Bergman restava devoto al teatro - era anche un grande regista di teatro - ma il suo lavoro cinematografico non ha tratto idee soltanto da lì; lui ha attinto alla pittura, alla musica, alla letteratura e alla filosofia. Il suo lavoro ha indagato le ansie più profonde degli uomini, dando spesso un inusitato spessore a queste poesie di celluloide. Morte, amore, arte, il silenzio di Dio, la difficoltà dei rapporti umani, l'agonia del dubbio religioso, i matrimoni falliti, l'incapacità delle persone di comunicare tra loro. Ma era una persona calorosa, divertente, con un carattere scherzoso, insicura di fronte ai suoi immensi talenti e che stava bene con le donne. Incontrarlo non voleva dire entrare repentinamente nel tempio creativo di un genio formidabile, oscuro, meditabondo e che incuteva soggezione con profonde e complesse riflessioni, espresse con accento svedese, sullo spaventoso destino dell'uomo in un desolato universo. Tutt'al più poteva uscirsene così: "Woody, ho fatto ancora quello stupido sogno in cui mi presento sul set per girare e non riesco a decidermi su dove collocare la macchina da presa; il fatto è che è una cosa che ormai so fare abbastanza bene e che faccio da anni. Ti capita mai di fare questi sogni ansiosi?" Oppure: "Pensi che sarebbe interessante girare un film dove la cinepresa non si muove neanche di un centimetro mentre gli attori entrano ed escono dall'inquadratura? Oppure farebbe ridere la gente?". Cosa si risponde al telefono a un genio? Non mi pareva che quella fosse una buona idea, ma sono convinto che nelle sue mani sarebbe potuta diventare qualcosa di speciale. Dopotutto, anche il vocabolario da lui inventato per indagare la profondità della psiche degli attori sarebbe apparso ridicolo a chi studiava cinematografia. Nelle scuole di cinema (fui cacciato dalla New York University abbastanza presto quando studiavo per la specializzazione negli anni Cinquanta) l'enfasi era sempre sul movimento. Queste sono immagini in movimento, si insegnava agli studenti, e la macchina da presa dovrebbe muoversi. E i professori avevano ragione. Ma quando Bergman collocava la macchina da presa fissa sul volto di Liv Ullmann o di Bibi Andersson e lì la lasciava e non la spostava e il tempo passava, allora accadeva qualcosa di strano e meraviglioso, dovuto solo alla sua genialità. Lo spettatore era preso dal personaggio e nessuno si annoiava. Al contrario, si era entusiasti.
Bergman, con tutte le sue idiosincrasie e ossessioni filosofiche e religiose, aveva un senso innato per raccontare le storie e quindi era inevitabile che fosse in grado di intrattenerti anche quando nella sua mente era intento a sceneggiare le idee di Nietzsche o di Kierkegaard. Ero solito restare a lungo al telefono con lui. Erano telefonate dall'isola in cui viveva. Non accettavo i suoi inviti per andare a trovarlo perché viaggiare in aereo non mi piaceva. Inoltre non avrei apprezzato un volo su un minuscolo aeroplano con il quale avrei raggiunto un puntino vicino alla Russia per quello che immaginavo sarebbe stato un pranzo a base di yogurt. Parlavamo sempre di film e naturalmente lasciavo parlare lui la maggior parte del tempo, perché sentivo che era un privilegio ascoltare i suoi pensieri e le sue idee. Lui proiettava per sé un film ogni giorno e i film non si stancava mai di vederli. Di ogni tipo, muti e sonori. Per addormentarsi guardava una cassetta di quel tipo di cinema che non lo costringeva a pensare e che lo aiutava a rilassarsi dall'ansietà, qualche volta un film di James Bond. Come tutti i grandi maestri del cinema - Fellini, Antonioni o Buñuel, per esempio - Bergman ha avuto i suoi critici. Ma se si escludono dei lapsus occasionali, i film di questi artisti hanno colpito profondamente milioni di persone in tutto il mondo. In effetti, sono coloro che meglio conoscono il cinema, coloro che lo fanno - registi, sceneggiatori, attori, direttori della fotografia, montatori - a provare il maggior rispetto per il lavoro di Bergman. Poiché per decenni ho cantato le sue lodi tanto entusiasticamente, quando è scomparso mi sono arrivate richieste di commenti o interviste. Come se avessi avuto qualcosa di efficace da aggiungere alla triste notizia, se non proclamare semplicemente la sua grandezza. Mi è stato chiesto quale era stata per me la sua influenza. Come avrebbe potuto influenzarmi? Ho risposto: lui era un genio e io non sono un genio, e la genialità non può essere insegnata. Quando Bergman iniziò a essere conosciuto nelle cineteche di New York come un grande autore cinematografico, io ero un giovane commediografo e un comico di night-club. Si può subire l'influenza di Groucho Marx e di Ingmar Bergman? Una cosa sono riuscito ad apprendere da lui, qualcosa che non dipende dalla genialità e nemmeno dal talento, qualcosa che può essere nei fatti imparata e sviluppata. Parlo di ciò che spesso si chiama con poca precisione etica del lavoro, ma che in realtà è semplice disciplina. Ho imparato dal suo esempio a cercare di fare il meglio possibile in un dato momento, senza cedere all'assurdo mondo dei successi e dei flop, senza rassegnarsi a entrare nello sfavillante ruolo del regista, realizzando invece un film per poi passare a quello successivo. Bergman ha girato nella sua vita circa 60 film, io ne ho girati 38. Se non posso raggiungere la sua qualità, forse potrò avvicinarmi alla sua quantità.
Copyright The New York Times Syndicate. Traduzione di Guiomar Parada
(23 agosto 2007)
lunedì 20 agosto 2007
Presbiopia italiana
da G. D'Avanzo, "La politica dell'inazione", Rep. 17/8/07
domenica 12 agosto 2007
La certezza della pena (negli Usa)
Stati Uniti, in galera a 83 anni «Ha ingannato gli azionisti»
John Rigas, l' uomo che ha fondato e diretto per alcuni decenni, fino alla bancarotta del 2002, Adelphia, uno dei più grandi operatori di tv via cavo, entrerà domani nel carcere di Rochester, nel Minnesota, per scontare una pena di 15 anni, dopo che la sentenza emessa tre anni fa è stata recentemente confermata in appello. Lo stesso giorno suo figlio Tim inizierà un periodo di detenzione di 20 anni nel carcere di Elkton, in Ohio. John Rigas, il figlio di immigrati greci che era la perfetta incarnazione del «sogno americano» (da garzone di bottega a imprenditore miliardario) fino a quando non è stato accusato di frode a danno degli azionisti (2,3 miliardi «prestati» da Adelphia alla famiglia senza scriverlo nel bilancio) sta per compiere 83 anni e ha seri problemi di salute: è sordo, vede con un solo occhio ed è in cura per un cancro alla vescica, ora in remissione. Nulla di tutto questo gli risparmierà il carcere: i 15 anni già sono il frutto di uno sconto di pena concesso per l' età avanzata. Come estrema concessione, il giudice ha stabilito che il vecchio imprenditore potrà essere rilasciato dopo i primi due anni di detenzione, ma solo se il medico del carcere certificherà che gli rimangono meno di tre mesi da vivere. La severità della pena è un tratto caratteristico del sistema giudiziario degli Stati Uniti, un Paese con oltre due milioni di detenuti (compresi quelli agli arresti domiciliari): un livello che supera di circa dieci volte non solo l' Italia, ma anche altre nazioni europee come Francia e Germania. E sulla criminalità finanziaria il pugno della giustizia Usa in questi anni è stato particolarmente duro. Bush è considerato il presidente che più ha cercato di piegare il potere giudiziario alla volontà dell' Esecutivo (i giudici nel sistema americano sono eletti o vengono nominati dal governo) ed anche quello che ha maggiormente cercato di favorire il mondo degli affari. Proprio per questo, quando all' inizio del decennio Wall Street fu sconvolta dagli scandali finanziari, molti pensarono che tutto si sarebbe risolto in una serie di processi-farsa. Ma Bush varò una severissima legge di riforma della contabilità - la Sarbanes-Oxley, che ha appena compiuto i cinque anni - e promise che nei tribunali la «corporate America» non avrebbe goduto di un occhio di riguardo. Promessa mantenuta: da Dennis Kozlowski di Tyco a Bernie Ebbers di WorldCom, da Joseph Nacchio di Qwest a Jeffrey Skilling della Enron, le condanne per i crimini dei «colletti bianchi» sono state durissime. L' ultimo della serie è Lord Conrad Black, il «barone» dei giornali, un anziano imprenditore canadese condannato dal tribunale di Chicago per le irregolarità commesse negli Usa dalla Hollinger International: ora rischia fino a 35 anni di carcere. Kenneth Lay, gran capo di Enron e amico personale di Bush (era l' imprenditore più influente del Texas quando l' attuale presidente era governatore dello Stato) ha evitato il carcere solo per un infarto che l' ha ucciso un mese prima dell' inizio della detenzione. Pene severe, «esemplari», volte a dimostrare agli americani che nessuno può comprare l' impunità e ai mercati che l' America rimane il posto più sicuro nel quale investire. Ma anche condanne che spesso, proprio a causa di questi obiettivi, provocano un accanimento eccessivo e lasciano spazi alla giustizia-spettacolo. Il caso dei Rigas sembra essere uno di questi. John, il fondatore, ha sempre rifiutato di dichiararsi colpevole, sostenendo che quelli commessi dall' Adelphia sono stati solo errori e «leggerezze» contabili di cui, prima del caso Enron, nessuno si sarebbe accorto. «Ci siamo trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato», ha detto al quotidiano Usa Today. Andare in carcere senza patteggiare «è il mio modo di dire ai nipoti che non devono vergognarsi della loro famiglia». Una famiglia comunque devastata. Di quello che John Rigas ha costruito in mezzo secolo (cominciò comprando un cinema a Coudersport, in Pennsylvania, nel 1951) non resta più nulla (i pezzi della società andata in bancarotta sono finiti a Time Warner e alla Comcast). E con John sono stati condannati anche i figli: non solo Tim, ma anche Michael che, però, se l' è cavata con dieci mesi di arresti domiciliari. La famiglia ha chiesto che padre e figlio siano detenuti nello stesso luogo, in modo da facilitare le visite, ma nemmeno questo è stato, al momento, concesso. L' ultima speranza di John e Tim è una revisione del processo, visto che il principale testimone d' accusa, l' ex vicepresidente di Adelphia per le attività finanziarie, James Brown, in un recente giudizio civile ha raccontato una «verità» molto diversa da quella da lui presentata nel processo del 2004. Allora Brown aveva dichiarato di aver mentito agli azionisti sulla natura di quel fondo di 2,3 miliardi su pressione dei Rigas. Ora ha invece detto di non aver mai detto il falso alla società di revisione contabile e agli azionisti sulla riclassificazione del debito di Adelphia e sull' operazione di «co-borrowing» dei miliardi finiti alla famiglia. Fin qui il governo - che ha tempo fino al 7 settembre per decidere - non ha accettato la richiesta di celebrare un nuovo processo e del resto, spiegano gli esperti, i giudici federali sono sempre molto restii a riaprire un caso quando un teste, anche importante, cambia a distanza di anni la sua versione dei fatti. Nessuno pensa che i Rigas siano stati vittima di un errore giudiziario, ma certo la volontà dell' Amministrazione di usare il caso come un esempio e un monito per tutti è costata loro cara: il vecchio John ricorda che nel luglio del 2002, quando fu emesso il mandato di cattura, i Rigas offrirono di consegnarsi in un commissariato, evitando la «gogna» mediatica. Furono invece arrestati e ammanettati al centro di New York davanti alle telecamere di tutte le reti americane. «Volevano lo spettacolo», commenta il capostipite che oggi dice di sentirsi come Gary Cooper nella scena finale di Mezzogiorno di fuoco: solo contro tutti. In effetti gli amici del potente tycoon di un tempo sono tutti svaniti. Solo nelle chiese della sua Coudersport pregano per lui.
giovedì 9 agosto 2007
Morto a 16 anni durante uno "stage" in cantiere
L'incidente è avvenuto in un vecchio edificio del centro storico della cittadina, in questo periodo affollatissima di turisti. Il ragazzo - Christian Schwingshackl, di San Martino in val Casies, uno studente che d'estate lavorava come stagionale - era appena sceso nella cantina quando sulla volta c'è stato un crollo e si sono staccati grossi sassi che l'hanno colpito alla testa. Subito sono scattati i soccorsi e sul posto è arrivato in ambulanza un medico che lo ha soccorso facendolo subito dopo atto ricoverare nell'ospedale cittadino. Le condizioni del giovane si sono però presto aggravate e così è stato deciso di trasferirlo in elicottero al più attrezzato ospedale di Brunico. Ma il brutto tempo, con nuvole e pioggia, ha impedito all'elicottero di alzarsi in volo. Così il ragazzo è stato trasportato in ambulanza sino a Brunico, ad una quarantina di chilometri da San Candido. Ma quando vi è arrivato per lui non c'era più niente da fare.
da unita.it
domenica 5 agosto 2007
Lo Stato italiano vende missili alla Libia attraverso Finmeccanica
ps: la notizia è stata rivelata da Le Monde. Cosa sarebbe successo se Finmeccanica avesse avuto il 100% di Mbda? Viene il sospetto che non si sarebbe saputo nulla.
Se «Sviluppo Italia» è «Sviluppo Parenti»
di Gian Antonio Stella, Corr. 4/8/07
venerdì 3 agosto 2007
Morire sul lavoro a 26 anni, schiacciati da un tubo di 3 tonnellate
All'Ilva hanno perso la vita in 40 dal 1993 a oggi: 6 morti e decine di feriti solo negli ultimi due anni.
Il gruppo Riva, che possiede l'Ilva, ha chiuso il 2006 con i migliori dati di bilancio della sua storia ultracinquantennale: gli utili hanno toccato 696,4 milioni di euro, in crescita del 44% sull'anno precedente (484,3 milioni di euro) mentre il fatturato consolidato netto ha raggiunto 9.454,9 milioni di euro, l'11% in più rispetto al 2005, quando erano stati realizzati ricavi per 8.535,1 milioni.
giovedì 2 agosto 2007
"Eternit, fu strage dolosa". Per 2.969 persone
Duemilanovecentosessantanove. A scriverlo in lettere, in una sola riga, concentra l’impatto grafico delle 105 pagine dell’avviso di conclusione delle indagini riempite di tutti quei nomi e cognomi di ex operai Eternit, delle storie di morte o malattia di ciascuno. Per mesotelioma pleurico o al peritoneo esplosi nei loro corpi 20-30 anni dopo aver respirato in fabbrica fibre di crocidolite, amianto. Lavorate senza adeguata protezione per la salute di tutti negli stabilimenti italiani di Cavagnolo (provincia di Torino), Casale Monferrato, Rubiera (nei pressi di Reggio Emilia) e di Bagnoli.Quel «tutti» è importante: la polvere d’amianto ha ucciso anche fuori delle fabbriche. Nell’atto giudiziario compaiono anche 482 persone di Casale che non varcarono mai i cancelli Eternit. Casale è anche la comunità che più si è organizzata contro questa silenziosa strage degli innocenti: associazioni, lotte, denunce, leggi per risanare i tetti e le strade di polvere d’amianto. Altrove, come a Bagnoli, sono stati i collaboratori del procuratore aggiunto Raffaele Guariniello a fare un lavoro immane di censimento. Per riuscire a riscontrare, solo fra gli ex dipendenti Eternit in provincia di Napoli, 541 parti lese nel prossimo processo.Impressionante, tanto che uno degli avvocati che ha ricevuto l’atto giudiziario, Astolfo Di Amato, difensore di uno dei due indagati superstiti a fine inchiesta, dichiara a caldo: «La lettura del capo di imputazione determina una sensazione di dolore per il rispetto che si deve a tanta sofferenza». Il capo di imputazione svela gli sviluppi della più grande inchiesta aperta in Europa e ora pronta per il processo: due indagati, Stephan Schmidheiny (la posizione del fratello Thomas è stata stralciata) e Jean-Louis Marie Ghislain de Cartier de Marchienne. L’uno svizzero, l’altro belga, accusati di disastro doloso e omissione dolosa di norme antinfortunistiche nella «loro qualità - scrivono nell’atto Guariniello e i pm Sara Panelli e Gianfranco Colace - di effettivi responsabili della gestione della società».Si alternarono al vertice della multinazionale dei prodotti di fibrocemento: tettoie, tubi, manufatti d’uso comune rivestiti d’amianto. In particolare Stephan Schmidheiny, terza generazione della famiglia, è tuttora un personaggio: 60 anni, ha ceduto(almeno formalmente) quanto restava dell’impero Eternit (20 mila dipendenti sparsi in 20 stabilimenti nel mondo). E si è riconvertito allo sviluppo eco-compatibile. Come industriale: società di forestazione in Sudamerica. E guru: conferenze, libri (in Italia l’ha pubblicato Il Mulino). Il suo sito internet lo ritrae sorridente fra altri conferenzieri. E’ stato consigliere di Clinton su questi temi, ha parlato all’Onu e in Vaticano.L’avvocato Di Amato, suo legale, sostiene: «Il mio cliente è un obiettivo sbagliato. Non ha mai gestito gli stabilimenti italiani. E ha sempre dato impulso a misure di sicurezza nell’ambito di tutto il gruppo, dando corso a importantissimi investimenti». Guariniello e i suoi pm sostengono l’esatto contrario sulla base di una minuziosa ricostruzione di documenti Eternit che comprendono anche lettere di Stephan Schmidheiny agli amministratori del gruppo. Con le disposizioni sull’organizzazione del lavoro, sui sistemi di protezione della salute dei lavoratori, se eliminare o no l’amianto dal ciclo di produzione. Schmidheiny è stato al vertice della multinazionale dal 1972 sino a dopo la chiusura degli stabilimenti italiani (inizio anni 80). In questi tre anni di indagini i tanti investigatori e consulenti tecnici messi in campo dalla procura torinese, dopo aver accertato il primo caso che radicava la competenza territoriale dell’inchiesta qui, hanno rintracciato e convinto a testimoniare molti ex manager Eternit. Una mano ha dato loro l’associazione delle vittime d’amianto di Casale con i suoi legali. Con loro era stata aperta una trattativa per il risarcimento dei danni: a Schmidheiny, tra i più ricchi al mondo secondo la rivista americana Forbes, era stata effettivamente chiesta una somma superiore ai 100 milioni di euro. Il suo avvocato riconosce la «lealtà» degli avversari. Ma sul risarcimento è ancora notte.
Alberto Gaino, Stampa, 2/8/07