martedì 25 settembre 2007

Convergenze

"Oggi in prigione finiscono solo i poveracci e qualche spacciatore di droga, per poco tempo, e i magistrati come me rischiano la disoccupazione". Lo ha detto al Corriere Bruno Tinti, procuratore aggiunto di Torino, autore del libro "Toghe rotte". Il riferimento è alla depenalizzazione del falso in bilancio: secondo Tinti, la maggior parte dei procedimenti per reati finanziari si conclude con la prescrizione o non inizia neppure. "Non c'è alcuna differenza tra un governo e un altro. Da Mani Pulite in poi, la preoccupazione stata una sola: rendere non punibile la classe dirigente di questo paese".
La giustizia è un tema su cui maggioranza e opposizione si trovano spesso d'accordo. "Sulle toghe scomode - vedi caso De Magistris - c'è convergenza tra governo e centrodestra" ha detto sempre sul Corriere (qualche pagina più avanti) Cesare Salvi, presidente della commissione giustizia del Senato.

lunedì 24 settembre 2007

Coincidenza

Giovedì la Fiat ha affidato a Goldman Sachs l’incarico di collocare 15 milioni di azioni Mediobanca. E questo proprio mentre era pronto per il mercato un rapporto di Goldman sull’automotive europeo che ha alzato il target price di Fiat da 26 a 30 euro.

CorrierEconomia, 24/9/07

"Finpart, un fallimento che nasce dagli interessi degli istituti di credito"

Nella relazione del curatore fallimentare e nella ricostruzione di Gianluigi Facchini l’accusa alle banche

di Walter Galbiati

Le indagini sono chiuse. Il fallimento della Finpart, l’azienda di Gianluigi Facchini e dello scomparso Giancarlo Arnaboldi passa ora all’esame dei giudici. Una storia di mala finanza che non ha mancato di lasciare morti e feriti sulla sua strada. E come il più delle volte capita, le vittime, oltre che tra i lavoratori e i fornitori, si contano tra i piccoli risparmiatori. Le cifre del disastro stanno nella relazione del curatore fallimentare, Piero Canevelli. Su un passivo di oltre 300 milioni di euro, ben 250 milioni fanno capo a obbligazionisti. Solo 35 milioni, invece, sono da ricondurre al sistema bancario.
La storia della Finpart è quella di un’azienda cresciuta velocemente attraverso acquisizioni di altre aziende, dove però i mezzi arrivavano più da terzi che dai soci. Uno sbilanciamento che a fine 2001 ha portato la società al collasso. Facchini ha cercato di rilanciare senza riuscirvi alcuni marchi storici della moda italiana e, nel corso dell’incidente probatorio, ha indicato in un evento, l’emissione del bond Cerruti, la principale causa del tracollo finanziario del gruppo. Un’emissione obbligazionaria mastodontica per le possibilità di rimborso della Finpart, che si è sommata a una crisi del settore tessile acuita dal crollo delle Torri Gemelle. La Finpart a metà 2001 aveva già acquistato il 51% della Cerruti, la società di alta moda che insieme con i marchi Moncler, Best Company, Henry Cotton’s e Frette, avrebbe dovuto costituire il nocciolo duro del gruppo.
Il restante 49%, valutato intorno a 80 milioni di euro, era rimasto in mano a Nino Cerruti che in azienda continuava a svolgere il ruolo di direttore creativo. La Finpart si era impegnata a rilevare quella quota nel giro di tre anni, ma le banche, cavalcando i dissapori con Cerruti, convinsero la Finpart ad emettere un prestito obbligazionario per comprare anticipatamente tutta la società. Servono solo 80 milioni, ma gli advisor, Ubm (gruppo Unicredit) e Abax Bank (gruppo Credem) spingono per emettere titoli di debito per 200 milioni di euro. Un’operazione «asservita scrive il curatore fallimentare all’interesse di Unicredit», perché la banca usò l’eccesso di liquidità raccolta per rientrare della propria esposizione nei confronti di Finpart, nata con l’acquisto del primo 51% della Cerruti.
«Il bond racconta Facchini nel corso dell’incidente probatorio era stato inizialmente pianificato a 150 milioni per consentire anche un rifinanziamento per lo sviluppo delle aziende. [...] Una parte di questo bond, segnatamente per la quota eccedente i 150 milioni, gli altri 50 milioni, fu convogliata da Unicredit direttamente a rimborso anticipato di una tranche del finanziamento a scadenza fissa gennaio 2002, quindi fu rimborsato anticipatamente questo finanziamento Unicredit ottenuto per l’acquisto del 51% [di Cerruti]».
Ma con quali banchieri aveva rapporti Facchini? «Inizialmente io trattavo col dottor Pietro Modiano, che era l’amministratore delegato di Ubm, e poi invece gradualmente anche questo contatto si dilatò e lui delegò altri suoi sottoposti.[...] che erano il dottor Davide Mereghetti e il dottor Luca Fornoni ... Fausto Galmarini curava l’aspetto creditizio», mentre per Abax Bank c’era Fabio Arpe. Per convincere il mercato che la Finpart sarebbe stata in grado di ripagare quel bond, le stesse Ubm e Abax Bank emisero un giudizio favorevole sull’operazione. «Dopo l’emissione del bond, la posizione finanziaria netta dice Facchini ammontava a 500 milioni di euro. Analizzati e ritenuti sostenibili dalle stesse Unicredit e Abax Bank nelle loro credit opinion».
Per quanto riguarda Unicredit, secondo il curatore, «la banca al di là della mera facciata dell’acquisto di un nuovo gruppo aveva solo l’interesse a rientrare del suo credito e ne aveva già precostituito le condizioni; conseguito il rimborso, ha immediatamente abbandonato Finpart; il loro intervento era stato accuratamente programmato per far sì che al passivo dell’ineluttabile fallimento Finpart, invece del Credito Italiano vi fossero alcune migliaia di risparmiatori». Alla fine l’esposizione di Unicredit al fallimento sarà di 1,4 milioni di euro.
La società, infatti, dopo un lungo tira e molla, fallisce il 25 ottobre 2005, ma per il curatore era «decotta» fin da allora, tanto è vero che per l’accusa i primi fatti di bancarotta (la compravendita di azioni Pepper e Frette) risalgono proprio agli anni 2000 e 2001. Le banche, rientrate dei crediti, mollano la baracca. Nell’aprile 2002 la Finpart subisce una vera e propria stretta creditizia. «Le linee di credito spiega Facchini sono congelate», non revocate, in modo tale che «nella Centrale rischi appari come affidato», ovvero come un cliente che ha fidi in abbondanza, mentre in realtà il cliente ha a disposizione linee bancarie che non può utilizzare.
Per risolvere i problemi con il sistema bancario, Facchini si rivolge a Ubaldo Livolsi. La soluzione proposta dal nuovo consulente è di effettuare un aumento di capitale da 100 milioni di euro. Ma anche di questi soldi, in gran parte garantiti dalla Popolare di Intra, una delle banche più esposte verso Facchini e il suo gruppo, ben pochi restano a disposizione di Finpart. Interbanca che si impegna a cogarantire l’aumento di capitale ne approfitta per rientrare di una linea di credito ponte di 26 milioni di euro, mentre la Lafico, società di investimenti del governo libico, che si impegna a versare 30 milioni di euro per l’aumento di capitale, costringe Facchini ad utilizzarne ben 24 per acquistare una quota di Olcese, un’altra società tessile in fallimento, gestita da Paolo Mettel e dal figlio di Gianni Varasi, Leopoldo. Secondo la ricostruzione di Facchini, Livolsi chiede di fare l’operazione con Lafico per fare un favore a Gaetano Miccichè, approdato da poco a Banca Intesa, nella speranza di avere un appoggio dalla banca di Corrado Passera e di Giovanni Bazoli. «Miccichè dice Facchini che era stato amministratore delegato di Olcese, fino alla credo primavera del 2002, aveva un ottimo rapporto con il dottor Livolsi e aveva promesso supporto lui stesso a Finpart, tramite Livolsi, nell’ipotesi in cui l’operazione con i libici fosse andata in porto, in sostanza, cioè, che si salvasse Olcese. L’interesse di Miccichè chiaramente era di avere l’operazione Olcese in sicurezza». Alla fine si rimanda solo di qualche anno il fallimento di Finpart. Mentre i consiglieri, i sindaci e i soci che si sono succeduti con peripezie varie alla guida del gruppo sono in attesa di un possibile rinvio a giudizio.


Affari&Finanza, 24/9/07

venerdì 7 settembre 2007

Le scarcerazioni facili non esistono

Ieri i tg annunciavano un supervertice al Viminale contro le "scarcerazioni facili", per studiare il modo di tenere dentro i criminali ed evitare che vadano a spasso prima della condanna definitiva. Scrivevo, e ribadisco, che le scarcerazioni facili non esistono. Esistono scarcerazioni a norma di legge: cioè di quella legge fatta da politici che spesso, poi, non ricordano più di averla fatta. Proprio ieri i carabinieri di Treviso arrestavano due albanesi e un rumeno per il duplice omicidio di Gorgo al Monticano. Il rumeno ha confessato le sue responsabilità e quelle dei due presunti complici. Uno dei tre, condannato per stupro, era uscito grazie all’indulto.

Scarcerazione facile? Sì, ma a opera del Parlamento (esclusi Idv, Pdci, Lega e An) che un anno fa votò l’indulto. Comunque, indulto a parte, se tanti imputati tornano in libertà prima che finisca il processo (sono presunti innocenti fino alla sentenza definitiva che arriva in media 10-12 anni dopo che han commesso il fatto) non è colpa dei magistrati, che alla fine del termine di custodia cautelare sono obbligati a scarcerarli. Né si può pensare di tener dentro per anni chi non è stato ancora condannato, come ai tempi di Valpreda. Il problema è dunque la lunghezza dei processi, che dipende anzitutto da due fattori. Primo: i troppi gradi di giudizio, che nei paesi seri sono al massimo due e da noi almeno cinque: indagini preliminari, udienza preliminare, primo grado, appello e Cassazione. Secondo: il regime della prescrizione, che nei paesi seri s’interrompe col rinvio a giudizio , mentre da noi continua a galoppare anche dopo il rinvio a giudizio e persino dopo la condanna in primo e secondo grado.

Basterebbe abolire il grado di appello (salvo in presenza di prove nuove) - come ha proposto di recente,inascoltato, il vicepresidente del Csm Nicola Mancino - e fermare la prescrizione all’udienza preliminare, per ridurrebbe i tempi dei processi a costo zero e liberare risorse umane e finanziarie per celebrare ancor più celermente gli altri due gradi di giudizio. A cascata, eviteremmo tante scarcerazioni di colpevoli per decorrenza dei termini, mentre gli innocenti ingiustamente accusati avrebbero giustizia molto prima di oggi. Ma di queste misure di puro buonsenso non pare si sia parlato nel supervertice al Viminale, occupato dalle chiacchiere sui lavavetri e gli ambulanti.

Pare che si sia parlato anche di mafia e di ’ndrangheta: e qui, com’è noto, il problema non è solo tener dentro i boss e i killer, ma prenderli. Bene, anzi male: l’ordinamento giudiziario Mastella varato a fine luglio dal Parlamento, fra i vari disastri, provocherà anche questo: l’azzeramento delle Procure, comprese quelle antimafia. La norma infatti prevede il bollino di scadenza dopo 8 anni per tutti gli incarichi direttivi e semidirettivi. Vuol dire che tutti i procuratori capi e aggiunti in attività da 8 anni dovranno sloggiare su due piedi. Solo a Palermo "scadono" e se ne andranno alcune memorie storiche dall’antimafia, da Lo Forte a Pignatone, da Scarpinato a Lari ad Alfredo Morvillo. A Torino se ne andrà il procuratore Marcello Maddalena, noto soprattutto per le sue indagini sulle cosche trapiantate in Piemonte . Il Csm calcola che almeno 400 fra capi e aggiunti se ne andranno , e occorrerà almeno un anno per rimpiazzarli tutti.

È troppo pretendere che, tra un allarme spugnette e un allarme collanine, il governo prenda sul serio anche l’allarme del Csm sulla scomparsa dei procuratori?

Marco Travaglio
L’Unità 5.9.2007

giovedì 6 settembre 2007

Lirio Abbate, cronista sotto assedio a Palermo

Dice Lirio Abbate che il lavoro di cronista a Palermo o è accurato o non è. Lirio ha 37 anni, è redattore all'Ansa. Come tutti i siciliani "buoni", come tutti i siciliani migliori, non è portato a far gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi. Sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del gruppo, della "cosca", ricordava Sciascia. Sarà per questo, che Lirio se ne sta per conto suo e segue la sua strada anche se sa bene quale sarebbe il modo più conveniente per starsene in ombra, un po' in disparte e in pace. Puoi sempre scivolare lento sulla superficie dei fatti e quindi "prendere atto": prendere atto che quello è indagato per mafia; che quell'altro è stato rinviato a giudizio; che quell'altro ancora è sotto processo per favoreggiamento alle cosche; che la magistratura sempre "indaga a 360 gradi".

Nessuno te ne vorrà. È il tuo lavoro e se fai il tuo lavoro con prudenza, senza eccessi, con mediocrità, nessuno salterà su contro di te. Però, dice Lirio, che ha una compagna e un bimba di dieci mesi, questo lavoro non è accurato, non è onesto perché non racconta quel che vede e sa: "Io so, noi sappiamo chi sono i mafiosi e gli amici dei mafiosi o i loro protettori. Non ho, non abbiamo bisogno di attendere una sentenza o la parola della Cassazione o un'inchiesta giudiziaria perché penso che, prima della responsabilità penale, sempre eventuale, ci sia una responsabilità sociale e politica accertabile. Se il deputato, il consigliere regionale, l'assessore, il primario, il professore universitario se ne vanno in giro con il mafioso è un fatto. Si conoscono, passeggiano sottobraccio, si baciano quando s'incontrano. È soltanto accuratezza non rinviare ai tempi di una sentenza quel racconto. È il mio lavoro dirlo ora, subito. Non sono una testa calda, non sono un estremista, sono un cronista e credo che il mio impegno sia stretto in poche parole: raccontare quel che posso documentare".

Deve essere questa convinzione che ha fottuto Lirio. Alla vigilia delle elezioni amministrative (maggio 2007), il suo metodo di lavoro deve aver messo di cattivo umore qualche capintesta moralmente opaco. La sua certosina ostinazione a ricostruire la rete di complicità "borghesi" che, per 43 anni, ha custodito la latitanza di Bernardo Provenzano non deve aver migliorato l'umore di altri. Un giorno lo chiamano in questura e gli dicono che "non si deve preoccupare, ma che sarà protetto con discrezione". Lirio si preoccupa, altroché. Cerca di capire. Capisce che sono in corso delle intercettazioni nel quartiere mafiosissimo di Brancaccio e in quelle conversazioni è saltato fuori che occorrono delle armi per fare "una sorpresa a quel rompicoglioni". Dice Lirio che, in quei momenti, quel che ti sta accadendo ti appare del tutto sproporzionato. "In fondo, sei consapevole che il tuo lavoro, per quanto meticoloso e accurato, nella migliori delle ipotesi si avvicina, senza svelarla, all'autentica realtà delle cose. Ti chiedi qual è stata la frase, il dettaglio, il nome che può avere inquietato e non sai dirlo. Puoi forse immaginarlo, non averne la certezza. Così vai avanti. Fingi che non sia accaduto niente. Tieni per te l'angoscia, senza rovesciarla su chi ti è accanto. Tanto passerà".

Non passa invece. Un giorno Lirio trova sulla sua auto "la lettera di un amico". Lo invita "a stare attento". In questura dicono che la minaccia è "molto seria", che una scorta armata lo seguirà passo passo durante il giorno. Per un cronista andarsene in giro con uomini armati è molto buffo. Il lavoro ne è irrimediabilmente pregiudicato. Quale "fonte" accetterà di incontrarti? Quale fonte ti confermerà quel che non potrebbe confermarti? Devi fermarti all'ufficialità, al "prendere atto". Dice Lirio che anche per questo, con la direzione dell'Ansa, decide di "staccare", di venir via dalla Sicilia, di starsene qualche mese a Roma, nella redazione centrale.

Lirio è tornato a Palermo soltanto dieci giorni fa e quelli subito si sono fatti sotto. Nella notte gli hanno sistemato una bomba incendiaria sotto l'auto. Il quartiere della Kalsa bloccato per ore. Polizia a sigillare la zona; artificieri per disattivare l'ordigno; vigili del fuoco preparati al peggio; carri dei vigili urbani per spostare in fretta le auto che davano impiccio e, nei giorni successivi, il silenzio di Palermo. Un silenzio freddo, scrupoloso, amaro che lo imprigiona come in una bolla d'aria. Dice Lirio che non vuole parlare di "solitudine" perché gli sembra retorico e inesatto: se ne vergognerebbe.

"In quel che mi accade" sostiene Lirio "mi sento fortunato. Sento accanto a me l'amichevole presenza dei miei colleghi di redazione. La direzione dell'Ansa è premurosa. Polizia e magistratura di più non potrebbero fare per rassicurarmi. Ma, se si esclude questo cerchio protettivo, avverto l'indifferenza della città. Un sindacato di giornalisti ha diffuso un comunicato in cui si diceva, più o meno, che - è vero - Lirio Abbate è minacciato, ma è un affare che riguarda soltanto lui perché - tranquilli - i cronisti siciliani non corrono alcun pericolo. Si può? Quest'incomprensione collettiva è un grumo di veleno e di amarezza che aggrava l'angoscia peggio della minaccia di quei vigliacchi e non parlo di me soltanto, parlo delle decine di casi che, come il mio, si consumano ogni giorno in città, nell'indifferenza di una Palermo muta che quotidianamente "prende atto" di negozi bruciati dagli estorsori che non risparmiano i piccoli e piccolissimi esercizi e finanche i distributori di benzina. Una città dove, se ti portano via l'auto o la moto, sai a chi puoi rivolgerti - tutti sanno chi è il mafioso del quartiere - per fartela restituire dietro il pagamento di una cauzione, così la chiamano. È vero, l'iniziativa di Confindustria è straordinaria. Erano dodici anni che le associazioni antiracket invocavano un gesto, un passo deciso. Ora c'è una promessa. Vedremo con il tempo se alle parole seguiranno i fatti. Però, perché prima di mandar via chi paga il pizzo non si comincia a mettere fuori da Confindustria l'imprenditore condannato per mafia? Ce ne sono. Basta guardare a Caltanissetta".

Dice Lirio che hanno ragione il capo dello Stato e il governo a chiedere che "la società civile" faccia la sua parte contro la mafia. È la parte del problema con cui egli sente di dover fare più dolorosamente i conti, oggi. "È un paradosso. Credi di dover fare in modo accurato il tuo lavoro di cronista per illuminare nell'interesse dell'opinione pubblica, di quella "società civile", gli angoli bui e sporchi del cortile di casa. Poi scopri che sei un ingenuo. Nessuno vuole guardare da quella parte, in quegli angoli - no - preferiscono voltarsi da un'altra parte anche se stai lì a tirargli la giacchetta. E allora perché lo faccio?, ti chiedi. Perché infliggo a chi mi è caro ansia, paura, apprensione e, Dio non voglia, pericoli? Perché, mi chiedo, non ascolti chi ti dice: ma chi te lo fa fare, vattene da qui, vattene subito, non ti accorgi che non vale la pena?".

La voce di Lirio sembra rompersi ora. Percettibilmente, il timbro diventa roco e trattenuto come di chi si sta sforzando di controllare un'emozione che forse è rabbia, forse è avvilimento o forse entrambe le cose. Dopo qualche secondo, Lirio dice finalmente: "Lo sai perché non decido di andarmene? Per onore. Sì, per onore! Non per il mostruoso, folle, ridicolo onore di cui si riempiono la bocca mafiosi deboli con i forti e forti con i più deboli, ma per quell'onore che mi chiede di avere rispetto di me stesso, che mi impedisce di inchinarmi alla forza e alla paura, di scendere a patti con ciò che disprezzo. Quell'onore che molti siciliani hanno dimenticato di coltivare".

Giuseppe D'Avanzo, Rep.
(5 settembre 2007)

martedì 4 settembre 2007

Clave e forconi per la rivolta fiscale della Lega

di Michele Serra, Espr. 30/8/07


Un gruppo di esperti di Lega e Forza Italia sono riuniti in una località segreta, che non rilascia ricevuta, per definire nei dettagli il piano della Rivolta Fiscale. Questi i punti principali.

Eroi
È molto importante indicare al popolo alcuni personaggi di forte impatto simbolico. Già pronto un piccolo ma efficacissimo elenco di Eroi Padani. Tra questi il barista veneto Angelo Zipiton, che pur di non consegnare il registratore di cassa alla finanza lo ha ingoiato morendo soffocato tra gli applausi dei clienti; il commercialista bergamasco Ugo Propellenti detto 'Stratagemma', in grado di ritoccare le dichiarazioni dei redditi cancellando gli ultimi due zeri con un pennarello, oppure bruciandole; il nullatenente di Varese Silvio Sbranzica, che riceve le Fiamme Gialle nel suo Boeing privato e per dimostrare la sua indigenza fa servire dalle hostess il vassoio-standard dell'Alitalia, quello con due biscottini, mezzo bicchiere d'acqua e al posto delle posate due dita di plastica.

Proselitismo
Convincere chi già non paga le tasse da anni a partecipare alla Rivolta Fiscale è molto difficile. Gli elettori non capiscono perché un gesto naturale e consolidato, che da generazioni fa parte delle tradizioni locali, debba essere considerato questa gran novità. Particolarmente svantaggiati gli evasori totali: come possono partecipare alla rivolta se già non pagano una lira? L'idea dei Saggi padani è questa: chi paga poco non paghi più niente, chi non paga niente vada al più vicino ufficio delle imposte e chieda con fermezza di prelevare dei soldi. Basta anche una somma simbolica.

Fucili
I fucili evocati da Bossi per armare i rivoltosi erano - come spiega in una nota l'ufficio stampa della Lega - solamente una metafora, che la malafede dei giornalisti ha voluto prendere alla lettera. In realtà, i rivoluzionari padani si serviranno solo di forconi, clave e torce, accompagnando gli assalti con urla gutturali, le donne vestite di stracci e con i poppanti al seno. I poppanti dovranno avere già una dentizione completa per poter poppare al seno rifatto.


Corpi speciali
Al raggruppamento più antico, i gloriosi Bracconieri della Valtellina che hanno già disseminato di tagliole ed esche avvelenate piazza del Duomo a Milano, si affiancheranno i corpi più moderni. Le Brigate Ussignur, nuclei di pensionati disfattisti che si aggirano per le città dicendo "Ussignur, qui la va sempre peggio". Le Sciampiste del Nord-Est, che si preparano ai momenti più duri della battaglia stirando i capelli a Michela Brambilla con ferri arroventati. I Ristoratori Padani, che vanno all'assalto sfondando i cordoni di polizia con i carrelli dei bolliti e presentando il conto alle loro vittime su un foglietto a quadretti scritto a matita. I Commercialisti della Valtellina, guidati da Giulio Tremonti, che hanno il compito di torturare i prigionieri nemici invitandoli a 'Porta a Porta'. Infine, gli astuti e temutissimi Elettrauto dell'Hinterland Milanese (Ehm), che appiedano le forze di polizia sostituendo la batteria nuova dei gipponi con una avariata.

Nuovo Stato
Nel nuovo Stato esentasse, le scuole, gli ospedali e le strade saranno finalmente aboliti e agevolmente sostituiti dall'iniziativa privata. Il problema degli spostamenti è considerato irrilevante: la gente deva stare a casa sua e finirla di disturbare andando di qua e di là. Rimarranno in vigore solo i charter per Sharm-el-Sheik per consentire le vacanze alle sciampiste padane, che diventeranno il ceto egemone e, in prospettiva, l'unico previsto per selezionare la Vera Razza Padana. La scuola pubblica, covo di comunisti e di donne isteriche, languirà finalmente fino all'estinzione, per la cultura basta la televisione. Gli ospedali pubblici saranno finalmente sostituiti dalla sanità privata: i medici abusivi della Valtrompia operano già da secoli a mani nude, disinfettando le ferite con il letame. E in ogni modo, inutile farla tanto lunga: i ricchi potranno curarsi in America, i poveri cantino ad alta voce 'La bela Gigugin' e non rompano i coglioni.
(30 agosto 2007)

lunedì 3 settembre 2007

Lumaca costosa

In tutto quel tempo un italiano qualsiasi potrebbe fare comodamente il giro del mondo: a piedi, camminando per otto ore al giorno. Dopo 1.210 giorni, ripassando dal tribunale, scoprirebbe che la sua causa per inadempienza contrattuale è stata finalmente discussa. Se fosse stato un cittadino britannico sarebbero bastati 229 giorni. Non andrebbe poi tanto meglio a un' impresa che volesse licenziare un dipendente per giusta causa: la decisione, in un tribunale italiano, arriva in media dopo 700 giorni. In un tribunale olandese, dopo 19. Ci sono pochi magistrati? A Bolzano c' è un giudice ogni 110 fra cancellieri e personale vario. A Campobasso, uno ogni 221. Forse anche per questo la giustizia italiana è la più cara d' Europa: 67 euro l' anno a testa, contro 22 del Regno Unito e 46 della Francia. Per non parlare della sanità, dove si fa un numero di Tac doppio rispetto alla Germania e triplo rispetto alla Francia e il costo medio del posto letto in ospedale pubblico va da 134 mila euro l' anno per la Lombardia a 200 mila euro in Campania. Troppi dipendenti pubblici? Nel Regno Unito sono più o meno gli stessi. Ma perché in Lombardia ce ne sono 10 ogni 10 mila abitanti, in Sicilia 22 e nel Molise addirittura 45?

S.Rizzo, Corr. 2/9/07