mercoledì 24 ottobre 2007

La pugnalata a de Magistris

La «pugnalata alle spalle», come il pm Luigi de Magistris ha definito l' avocazione dell' inchiesta «Why not» a opera del procuratore generale reggente Dolcino Favi, è una ferita della profondità di quattro paginette svolazzanti, compresa quella di trasmissione da un magistrato all' altro. Ed è stata una pugnalata, come vedremo più avanti, decisa, comunicata e inferta in un giorno solo, venerdì 19 ottobre. Con la velocità e la determinazione che ogni pugnalata che si rispetti deve avere. Inclusa l' apertura della cassaforte blindata del pm a sua insaputa e la sottrazione di tutti gli atti dell' inchiesta «Why not» ben prima che la decisione di avocazione fosse notificata a de Magistris (ieri, cioè tre giorni dopo). Ma andiamo con ordine, perché a memoria d' uomo, e di giurista, e di politico, e di chiunque, ciò che è accaduto in questi tre giorni a Catanzaro non è mai accaduto in Italia dal 1861 a oggi. E forse non è mai accaduto nemmeno in paesi retti da regimi antidemocratici e illiberali. La decisione di Dolcino Favi di togliere l' inchiesta a Luigi de Magistris è basata su due motivi: il primo è che essendo Clemente Mastella un ministro, «va investito il tribunale dei ministri»; il secondo è che «il dottor de Magistris versa, a parere dello scrivente, in un conflitto d' interessi davvero evidente». Il conflitto d' interessi del pm, spiega Favi, «è indubbio, perché il pm è condizionato dalla pendenza del procedimento disciplinare» nei suoi confronti. In altri termini, da quando Mastella ne ha chiesto il trasferimento, de Magistris non sarebbe più sereno nei riguardi di Mastella. Una motivazione che in questi giorni era stata già contestata da più parti perché, è stato detto, sarebbe un pericoloso precedente: basterebbe che un ministro della Giustizia in odore di iscrizione sul registro degli indagati chieda il trasferimento del pm che lo indaga per porre quest' ultimo in una situazione di «conflitto di interessi» e quindi indurlo a mollare l' inchiesta. Ma è l' altra motivazione, la presunta violazione dell' obbligo di inviare gli atti al tribunale dei ministri, che mina nel suo complesso la decisione di Favi. E qui non c' entrano le questioni di diritto. Qui è proprio «il fatto» che non regge. O meglio, il fatto non c' è. Lo spiega lo stesso pm de Magistris: lui, dice, non doveva inviare un bel nulla al tribunale dei ministri, poiché stava indagando su Mastella per fatti antecedenti alla sua nomina a ministro. E, in ogni caso, come sempre avviene, «avrebbero potuto chiedermelo», dice il pm, poiché né il procuratore generale né il procuratore capo potevano sapere «in che veste fosse stato iscritto Mastella». E se anche per ipotesi Mastella fosse stato indagato come ministro, dice ancora il pm, «la sua posizione si sarebbe potuta stralciare, che bisogno c' era di sottrarmi l' intera inchiesta?». Ma l' intera inchiesta «Why not», ecco l' altra anomalia, per dirla con un eufemismo, era stata già prelevata, fisicamente, dalla cassaforte blindata del pm mentre questi, ancora domenica scorsa, nel suo ufficio, attendeva che gli fosse notificato il provvedimento. Ricapitoliamo, per chi pensa che la giustizia sia lenta: venerdì mattina, il procuratore della Repubblica (in realtà, il procuratore aggiunto Salvatore Murone, poiché il procuratore capo Mariano Lombardi è assente) invia una relazione al procuratore generale Dolcino Favi. Nella stessa mattinata di venerdì Favi, «vista la relazione del Sig. Procuratore», emette il decreto di avocazione - sul quale, di suo pugno, scrive: «Vi si dia immediata esecuzione» - e lo trasmette al procuratore capo Lombardi. Nello stesso giorno, nel pomeriggio, viene convocata in Procura la segretaria del pm de Magistris, la signora Maria, alla quale viene ordinato di aprire, con le chiavi che ha in custodia, la cassaforte blindata in cui il pm conserva tutti gli atti di «Why not». Maria ubbidisce e poi, quando lo racconta per telefono al pm, scoppia a piangere. Il decreto di avocazione, intanto, resta sulla scrivania di Lombardi per tre giorni e solo ieri mattina viene notificato al pm. E per la serie «dopo l' avocazione le indagini proseguiranno comunque», l' interrogatorio del nuovo supertestimone di «Why not», l' ex assessore regionale Giuseppe Tursi Prato, previsto per ieri pomeriggio, è stato rinviato «sine die». Nonostante la procura generale abbia solo un mese per chiudere l' inchiesta tolta a de Magistris.

C. Vulpio, Corr. 23/10/07

Bruxelles avverte l' Italia: spesa pubblica mai così alta, oltre la soglia del 50% del Pil

Nel 2006 la spesa pubblica ha toccato il record nazionale sfondando il tetto del 50% del Pil continuando con l' esecutivo di centrosinistra la progressione messa in moto dal governo di centrodestra. Il livello del 47,7% del Pil del 2004 era passato al 48,3% nel 2005 e si è attestato al 50,1% nel 2006. In Europa l' anno scorso solo la Francia ha speso più dell' Italia (il 53,4% del Pil), ma per sostenere un sistema di servizi pubblici considerato molto più efficiente e soddisfacente. In più Parigi può contare su un indebitamento dello Stato al 64,2% del Pil, quindi vicino a quel 60% consigliato dal Patto di stabilità come obiettivo di riferimento. L' Italia invece nel 2006 ha visto il suo debito arrivare al 106,8%, il livello più alto fra i 27 Paesi dell' Ue che impone ai contribuenti italiani di pagare ben il 4-5% del Pil in interessi. Il rapporto fra il deficit e il Pil in Italia l' anno scorso è addirittura schizzato al 4,4%, giustificando la procedura per disavanzo eccessivo iniziata dalla Commissione negli anni di Berlusconi. Nel 2006 in Europa solo l' Ungheria (con il 9,2%) ha avuto un deficit più alto. Dieci paesi virtuosi hanno registrato un avanzo di bilancio.

da I.Caizzi, Corr. 23/10/07

Legalità, Italia 41esima nel mondo

Tangenti, mazzette, favori, appalti truccati: a che punto è l' Italia nella classifica mondiale della corruzione? Secondo l' Indice annuale 2007 di Transparency International, che misura il livello di corruzione in 180 Paesi, siamo al 41° posto (nel 2006 eravamo al 45°): significa che in quanto a malaffari l' Italia supera (con un voto di 5,2) non solo le grandi democrazie occidentali come Inghilterra, Germania, Francia, Spagna e Stati Uniti, ma anche nazioni come la Repubblica Ceca, l' Ungheria, il Cile, la Slovenia.
In testa alla graduatoria dei Paesi più «trasparenti» ci sono Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda (voto 9,4 per tutte e tre).

da corr.,23/10/07

martedì 23 ottobre 2007

I grandi gruppi si piegano alla mafia

Troppo rischioso, meglio non investire al Sud. Così hanno pensato Impregilo, 3 Italia, Italcementi, e molte altre grandi aziende. Alla mafia non si arrendono solo piccoli imprenditori.

G.Lonardi, Rep. 23/10/07, "Così i grandi gruppi si sono piegati"

sabato 13 ottobre 2007

Comune di Milano: 11 milioni di consulenze "illegalmente attribuite"

Novanta incarichi su novantuno illegittimamente attribuiti. Regolamenti riscritti, «singolare circostanza», pochi giorni prima del conferimento degli incarichi, cosa che potrebbe configurare il dolo. E poi, contratti stipulati in numero superiore all' ammissibile e con persone prive di titolo. Risultato: la Corte dei conti parla di un danno di 11 milioni di euro. A pagare di tasca propria, potrebbero essere il sindaco Letizia Moratti e tutti gli assessori. La procura regionale della Corte dei conti, sollecitata a suo tempo dal consigliere comunale Basilio Rizzo, ha terminato la sua indagine. E ha spedito all' esecutivo comunale un «invito a fornire deduzioni» entro 60 giorni. Secondo i magistrati, gli incarichi «sembrano tutti violativi di chiare disposizioni statutarie», oppure «fondati su illegittime modifiche» del regolamento comunale che regola la materia. Un primo profilo di illegittimità, la Corte lo trova nella mancata pubblicizzazione della decisione di affidare nuovi incarichi. Inoltre, ma il fatto «non è censurabile in punta di responsabilità», l' amministrazione ha «pressoché raddoppiato il numero delle direzioni centrali, portate da 13 a 23, in spregio alle direttive del governo sul contenimento della spesa e dei costi della burocrazia». Più grave il fatto che il nuovo regolamento del Comune prescinda dalla necessità di laurea per le funzioni dirigenziali. E così, si trovano dirigenti non soltanto non dottori, ma anche in «assoluta insufficienza dei requisiti professionali».
Altro capitolo ancora, quello sulla responsabile del settore servizi sociali Carmela Madaffari. La dirigente ha in corso contenziosi di fronte al tar e al giudice del lavoro dopo essere stata dichiarata decaduta «per gravi inadempienze» dalla carica di direttore generale dell' Asl di Lamezia Terme, mentre un analogo procedimento era stato disposto durante la sua dirigenza dell' Asl di Locri. La Corte ricorda che un cittadino non deve subire danni se le condanne non sono passate in giudicato. Ma «altrettanto garantismo sembra dovuto nei confronti dei cittadini/comunità, dei quali non può non essere rispettata l' esigenza di essere amministrati da dirigenti senza ombre».
Detto questo, la magistratura fa i conti. E per il periodo che intercorre tra le nomine e il 30 settembre scorso, calcola che il Comune abbia versato 11 milioni e 669mila euro. Da ascrivere «con vincolo di solidarietà ove dovesse accertarsi la sussistenza di dolo», al sindaco Moratti, al direttore Borghini e ai componenti della giunta. La risposta, ora, spetta a loro.

da M.Cremonesi, Corr, 12/10/07

Debito, belgi e irlandesi i modelli da copiare

«Se ce l' abbiamo fatta noi, ce la potete fare anche voi». Nessuno può dire che i belgi, oggetto di barzellette francesi un po' come i carabinieri da noi, abbiano mai ecceduto in autostima. Quando gli si chiede dove sia finito il debito di Bruxelles, persino Paul De Grauwe è tentato di rifugiarsi nell' autoironia. E dire che lui, economista (fiammingo) di Lovanio e senatore liberale belga, avrebbe da raccontare una storia che davvero può far riflettere «anche» gli italiani. È in effetti la storia di un inseguimento e di un sorpasso improbabili sì, eppure avvenuti nel giro di pochi anni a opera un Paese in teoria sempre sull' orlo di una fine cecoslovacca, o peggio ancora jugoslava come qualcuno credeva negli anni ' 90. È proprio allora, con i secessionisti al 30% a Anversa, un sistema politico illeggibile e l' industria del sud francofono in depressione cronica, che il Belgio si mette alle spalle il Paese che nell' Unione gli assomiglia di più. Nel ' 93 l' Italia ha un debito al 118,5% del prodotto interno lordo (Pil) e il Belgio lo ha al 138%, un livello che neppure il pentapartito travolto da Tangentopoli e dalla crisi della lira aveva raggiunto. Sei anni dopo il Belgio è avanti e lascia al governo di Roma la maglia nera: 114,8% a 114,9%. La velocità come si vede è diversa e ignora persino le sempre risorgenti tentazioni scissioniste del vecchio regno post napoleonico. Quest' anno, il Belgio chiuderà con un debito totale delle pubbliche amministrazioni all' 83,9% mentre l' Italia viaggia venti punti sopra: battuti e distanziati da un sistema in permanente fase terminale. Possibile? Sì se nell' autoironia di Paul De Grauwe si legge il messaggio di uno Stato federale che non ha mai cercato ricette magiche, la vendita dell' argenteria o delle lenzuola. Vero, il Belgio degli anni ' 90 non ha avuto mano leggera sulle privatizzazioni, fino a mettere in vendita persino certe ambasciate. Ma il segreto della cura è che l' unico, vero choc è stato quello della determinazione politica di una comunità per altri versi divisa su tutto. Persino le litigiose amministrazioni regionali, quelle dalle quali passa quasi ogni euro su quattro di spesa pubblica, hanno accettato il controllo (ex post ma ferreo) di un' autorità centrale fatta di professori, banchieri centrali, esperti ministeriali: più statalisti e disciplinati gli scissionisti fiamminghi di certi sindaci di Taranto in default o dei responsabili dei tanti buchi sanitari regionali italiani. Per non parlare della spesa pubblica, cresciuta per finanziare il quieto vivere fra regioni e partiti disparati e poi tagliata di 15 punti di pil negli ultimi vent' anni: l' opposto del percorso italiano. Ne è uscita una Bruxelles oggetto di barzellette parigine ma in pareggio di bilancio dal 2000, che ha fatto del taglio del debito una palla di neve sempre più rapida con il calo degli interessi passivi e un surplus primario doppio rispetto a quello di Roma (al 4% del pil). Il resto della ricetta ricorda un po' l' altro «choc» europeo, quello dell' Irlanda. Sia Bruxelles che Dublino hanno ridotto le imposte sulle imprese e agito per attrarre il massimo di investimenti esteri. Il Belgio cresce sopra la media di Eurolandia da un decennio, l' Irlanda è riuscita a falciare il debito dal 100% circa al 25% del pil in dodici anni con imposte d' impresa al 12% e crescita al 5%. Ma quello è un esempio da giovane «tigre». A noi basterebbe la modesta determinazione di quei vecchi, lenti felini dei belgi.

F. Fubini, Corr. 12/10/07

martedì 9 ottobre 2007

Uranio impoverito, Parisi: "Tra i soldati all'estero 255 casi di tumore". Solo?

Sono 255 i malati di cancro, tra i militari italiani che negli ultimi dieci anni hanno partecipato a missioni all'estero, 37 sono deceduti. Almeno stando ai dati ufficiali. A rivelarlo è il ministro della Difesa, Arturo Parisi, nel corso di un'audizione davanti alla commissione d'inchiesta sull'Uranio impoverito del Senato. Numeri, questi, assai inferiori rispetto a quelli forniti dall'Osservatorio militare che, infatti, li contesta frontalmente e parla di almeno 2.500 malati e 150 morti.

Secondo i dati della Direzione di sanità militare, spiega il ministro, "sono in totale 255 i militari che hanno contratto malattie tumorali e che risultano essere stati impegnati all'estero nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq e in Libano nel periodo 1996-2006. Di questi militari, 37 sono morti". Nello stesso periodo i militari malati per tumore, e non impiegati all'estero, sono stati 1.427.

Ma Domenico Leggiero, dell'Osservatorio militare, l'associazione che assiste gli appartenenti alle forze armate e i loro familiari, sostiene che i dati sono molto diversi: "Ci dispiace, ma così anche Parisi perde credibilità. Avevamo riposto speranze in lui, ma queste cifre sono troppo lontane dalla verità".

Leggiero è pronto a mostrare "altri dati ufficiali della Difesa che parlano di un numero di malati quasi decuplicati e di un numero delle vittime da moltiplicare per tre: "Proprio oggi, in Sicilia, si stanno svolgendo i funerali del carabiniere Giuseppe Bongiovanni, morto l'altro ieri per un tumore contratto durante una missione all'estero. Se andate a vedere, questa morte non risulta al ministero".

da repubblica.it

sabato 6 ottobre 2007

Enichem, nessun colpevole per 17 morti

È domenica, il 26 settembre del 1976. Sono passati solo due mesi dal disastro di Seveso, in Lombardia. Gli operai dello stabilimento Enichem di Manfredonia sono al lavoro quando la colonna di lavaggio dell'anidride carbonica dell'impianto di produzione dell'ammoniaca scoppia. Un boato, poi dieci tonnellate di anidride arseniosa, una sostanza altamente cancerogena, fuoriescono dall’impianto. I dirigenti mandano immediatamente gli operai a riparare i danni. Senza alcuna protezione. Concluse le operazioni di bonifica, tutto a posto, si può tornare al lavoro. Le analisi del sangue di alcuni lavoratori danno valori sballati. Ma per l’azienda, e per qualche medico compiacente, la causa «sta nei troppi crostacei mangiati dai lavoratori». Negli anni a venire, sono almeno 22 i lavoratori che si ammalano di cancro. E diciassette di loro sono già morti.

La storia dell’Enichem a Manfredonia comincia nel 1970. Una manna dal cielo per quel fazzoletto di Puglia che è il Gargano, una terra dove il bosco della foresta Umbra al centro e le scogliere a picco sul mare non sono mai state terra fertile per gli investimenti elle grandi industrie. Ma ora è arrivata l’Eni, a sfamare centinaia di disoccupati foggiani. Tra di loro c’è anche Nicola Lo Vecchio un operaio che ha fatto carriera fino a diventare capoturno. All’inizio degli anni Novanta si ammala di cancro ai polmoni, anche se non ha mai toccato una sigaretta in vita sua. Ha un sospetto, e la voglia di capire lo assale. È così che Nicola comincia a ricostruire il ciclo di produzione interno al petrolchimico. Gli dà una mano Maurizio Portaluri, un oncologo associato a Medicina Democratica. Nel 1996 hanno abbastanza elementi per presentare un esposto contro l’azienda. È lo stesso anno in cui l’Enichem cessa le attività nello stabilimento pugliese. Nicola Lo Vecchio muore l’anno dopo, ma il processo ormai è partito.

Legambiente, il Wwf, un'associazione ambientalista locale Bianca Lancia, la Regione Puglia, il ministero dell'Ambiente e i comuni di Monte Sant'Angelo, Manfredonia e Mattinata, («poi ritiratisi – secondo quanto riferito da Legambiente – per ricevere un indennizzo»), si costituiscono parte civile perché condividono la tesi dell'accusa, secondo la quale «la mancata adozione di provvedimenti precauzionali a tutela degli operai impiegati per la rimozione dei materiali contaminati e le riparazioni degli impianti, ne avrebbe determinato una grave esposizione con conseguenze anche letali negli anni a seguire».

All’indomani della sentenza, è forte l’amaro in bocca. «L'inquinamento a Manfredonia ha ucciso, questo è un dato di fatto inoppugnabile – dichiara a denti stretti il presidente di Legambiente, Roberto Della Seta – e per vederlo affermato ci impegneremo con ogni mezzo possibile». «Riteniamo importante – aggiunge Gianfranco Botte, responsabile pugliese del Wwf – acquisire le motivazioni della sentenza, confidando in una eventuale impugnazione da parte della pubblica accusa».

Oggi, dell’Enichem nel golfo di Manfredonia rimane solo un pontile lungo chilometri che si staglia nell’Adriatico. E una sentenza che assolve tutti.


da unità.it