martedì 31 luglio 2007

Cosa vuoi che siano 2 miliardi di euro sottratti al fisco

Una stratosferica evasione tributaria da quasi due miliardi di euro è stata contestata dal fisco italiano ai soci della Bell, la finanziaria lussemburghese che fu lo strumento per la storica scalata a Telecom di fine anni '90. Il controllo della compagnia telefonica era stato ceduto nel luglio 2001 alla cordata Pirelli-Benetton e questo affare aveva garantito ai venditori, capitanati dal finanziere bresciano Emilio Gnutti, un'eccezionale plusvalenza su cui però lo Stato italiano non ha mai incassato neppure un soldo di tasse sui profitti (Irpeg). Ora, dopo due inchieste penali della Procura, l'Agenzia delle Entrate di Milano ha notificato ai rappresentanti della Bell l'atto finale di una procedura di accertamento tributario che finora era rimasta riservata: in pratica è il provvedimento che dichiara chiuse le verifiche fiscali e chiede agli azionisti dell'epoca della società lussemburghese, quasi tutti italiani, di versare un totale di 1 miliardo e 937 milioni di euro. Per l'esattezza: 653 milioni e 987 mila euro di «imposte evase»; 106 milioni e 815 mila di «interessi »; 1 miliardo, 177 milioni e 884 mila euro di «sanzioni».
IL PROCESSO FISCALE — L'Agenzia delle Entrate, che dipende dal ministero dell'Economia, ha già calcolato anche come la maxi-multa dovrebbe essere divisa tra le 17 persone fisiche e giuridiche che erano azioniste della Bell tra l'agosto 2001 e il 2002, quando fu incassata la plusvalenza Telecom. Il prezzo più salato rischia di essere pagato da Hopa, la società guidata da Gnutti che era diventata un salotto trasversale della finanza italiana: 635 milioni di euro tra imposta evasa, interessi e sanzioni. Altri 416 milioni gravano, sempre secondo il fisco, sulla consociata lussemburghese Gpp, ma anche la Gp Finanziaria di Brescia, che è la cassaforte personale di Gnutti, è chiamata in causa per 36 milioni di euro. Tra gli azionisti dell'epoca compaiono, oltre a Unipol (60 milioni), anche banche che poi si sono trovate schierate dalla parte opposta di Gnutti (e dell'alleato Fiorani) nelle scalate incriminate del 2005: Antonveneta rischia di concorrere nella maxi-multa per 184 milioni, la controllata Interbanca per 121 e il Monte dei Paschi per 143.
IL DEBITO - Quote minori gravano su società estere (come Finstahl e Tellus) che fanno capo ad alcuni imprenditori italiani e sui titolari, che invece restano misteriosi, del fondo Oak delle isole Cayman. Nel caso Bell il fisco inserisce i fratelli Ettore, Fausto e Tiberio Lonati, storici alleati di Gnutti, chiamati in causa come persone fisiche per circa 30 milioni di euro. Per evitare il salasso, la Bell e i suoi azionisti hanno diritto di contrastare l'accertamento respingendo l'accusa di evasione davanti alle commissioni tributarie, che sono i giudici dei processi fiscali, oppure di conciliare o patteggiare. Il giudizio fiscale potrebbe anche creare complicate questioni legali tra vecchi e nuovi azionisti di Bell, Hopa e delle banche interessate.
VISCO, TREMONTI E LA PROCURA — L'atto d'accusa del fisco è stato depositato anche in procura, perché proprio due indagini dei pm milanesi avevano riaperto l'affare Telecom. La prima è l'inchiesta che accusa Gnutti di frode fiscale appunto come «amministratore di fatto» della Bell. L'indagine sembrava contraddetta dai precedenti dirigenti dell'Agenzia delle Entrate, che a sorpresa smentirono che la Bell fosse un'ipotesi di «estero- vestizione»: un «vestito straniero» creato solo per nascondere profitti prodotti in Italia da italiani. Il caso fu anche al centro di furiose polemiche politiche fra Visco e Tremonti. Intanto, mentre cambiava il governo, una seconda inchiesta della Procura, questa volta per tangenti, ha decapitato l'Agenzia di Milano. Quindi i nuovi dirigenti hanno riaperto, oltre ai fascicoli sospettati di corruzione, anche l'istruttoria fiscale sulla Bell. E ora l'hanno chiusa confermando la presunta maxi-evasione.

Paolo Biondani, Corr. 31/7/07

domenica 29 luglio 2007

Avance a poliziotta, condannati a vestirsi da pollo

E’ questa l’insolita sentenza decisa da un giudice americano per tre uomini colpevoli di aver chiesto prestazioni sessuali a una poliziotta in incognito

PAINESVILLE, OHIO

Il giudice Michael Cicconetti aggiunge un’altra insolita sentenza a quelle per cui è divenuto famoso negli Stati Uniti.
Tre uomini sono stati giudicati colpevoli di aver chiesto, in un ristorante della città, prestazioni sessuali a una poliziotta in incognito. Il giudice Cicconetti in prima istanza li aveva condannati a 30 giorni di prigione, ma poi ha commutato la pena in qualcosa di più fantasioso: i tre uomini, a turno, dovranno indossare un costume giallo da pollo e a rimanere per 3 ore al giorno di fronte al palazzo di giustizia locale con un cartello con la scritta «Nessun Chicken Ranch a Painesville».

Il messaggio fa riferimento a "World Famous Chicken Ranch” (“Il più famoso pollaio del mondo”), un casinò-bordello nel Nevada dove la prostituzione è legale.
Il costume è stato preso in affitto da una persona del luogo che normalmente lo utilizza per far divertire i bambini nell’ospedale locale.

Come detto il giudice Cicconetti non è nuovo a sentenze fantasiose. In passato aveva condannato una persona che aveva dato del maiale a un poliziotto a sostare in strada, per alcune ore al giorno, con accanto un maiale e un cartello con su scritto: «questo non è un poliziotto». In precedenza, una coppia di persone che aveva rubato la statua Gesù in fasce dal presepe venne condannata a indossare gli abiti di Giuseppe e Maria e a camminare al fianco di un asinello.

sabato 28 luglio 2007

Aids, niente vaccino perchè i farmaci rendono di più

Gli economisti non hanno dubbi: se ancora oggi non esiste un vaccino contro l' Aids, a più di vent' anni dalla scoperta del virus, è anche colpa dell' industria farmaceutica. Che guadagna molto di più con i farmaci che con le vaccinazioni. Secondo Michael Kremer della Harvard University di Boston e Christopher Snyder della George Washington University di Washington, i vaccini sono utili a chi non è ancora infetto, mentre i farmaci servono a chi è già malato: hanno quindi un mercato sicuro, rispetto a un mercato basato su rischi potenziali. Ecco perché non conviene investire. Non solo: il costo delle terapie antivirali può essere affrontato dal ricco Occidente, mentre i vaccini sono destinati soprattutto ai Paesi poveri, che hanno scarse risorse economiche. «Non si può negare - commenta Giuseppe Pantaleo, del Centre Hospitalier Universitaire Vaudois di Losanna, fra i massimi esperti di vaccini presenti al congresso dell' International Aids Society in corso a Sydney - che la ricerca sui vaccini sia ad alto rischio per le aziende perché richiede grandi investimenti, senza la certezza di risultati in tempi brevi. Ma la gente deve anche capire che l' industria privata deve far soldi e non investe senza ritorno. Ecco perché sono indispensabili i finanziamenti pubblici, dei governi e di altre organizzazioni. Questa è la storia di tutti i vaccini». Sta di fatto che lo Iavi (International Aids vaccine initiative), un' organizzazione che promuove la ricerca in questo settore, aveva stimato, nel 2002, che sui 430-470 milioni di dollari destinati alla ricerca sui vaccini, soltanto 50-70 milioni arrivavano dall' industria privata. Ma questo non è l' unico motivo di ritardo. All' inizio del 2000 «Shots in the dark», un libro-denuncia del reporter di Science, l' americano Jon Cohen, puntava il dito sui pregiudizi politici che, soprattutto negli Usa, avevano rallentato la ricerca. Poi la situazione ha cominciato a cambiare: il governo americano ha iniziato a investire(come altri, quello italiano compreso, ma con poca visibilità sui risultati raggiunti nella messa a punto di un vaccino, tanto che non c' è traccia delle sperimentazioni negli atti del congresso di Sydney) e finanzia con 800 milioni di dollari l' anno la ricerca sui vaccini attraverso i National Institutes of Health dove lavora lo scienziato più famoso al mondo nel settore, Anthony Fauci, consulente della Casa Bianca per le malattie infettive emergenti. «Tutti devono contribuire allo sviluppo di vaccini, industria compresa - dice Fauci -, ma alle industrie dobbiamo fornire le basi scientifiche perché accettino il rischio». Alle istituzioni la ricerca di base e all' industria lo sviluppo dei prodotti? È così? «Non credo - continua Fauci - che ci debba essere un' esasperata balcanizzazione dei ruoli: oggi alcune industrie fanno anche ricerca di base e alcune istituzioni partecipano allo sviluppo». Ritardi nella ricerca sui vaccini sono innegabili, ma quest' ultima ha ripreso quota anche grazie ai privati, come la Fondazione Bill Gates, che proprio l' anno scorso le ha destinato 287 milioni di dollari in cinque anni, di cui 15,3 sono andati al centro di Losanna diretto da Pantaleo. «Siamo a un punto di svolta - dice Pantaleo - e anche le aziende hanno cominciato a muoversi. La francese Sanofi e l' americana Merck, storicamente impegnate nel settore delle vaccinazioni, stanno supportando, rispettivamente, due imponenti studi sull' uomo, uno in Thailandia su oltre 16.000 volontari sani e uno su 3.500 persone in Usa, nei Caraibi e in Brasile: i risultati sull' efficacia si avranno fra poco, entro il 2008». Lo studio del vaccino è andato a rilento anche per un altro motivo, questa volta tecnico: la complessità del virus, che cambia rapidamente e sfugge al controllo delle difese immunitarie. «Questi vaccini preventivi - spiega Pantaleo - non impediscono l' infezione, ma controllano la malattia e ne bloccano la trasmissione. La loro efficacia potrebbe attestarsi sul 30-40 per cento, non molto, ma sufficiente se si pensa a un impiego su popolazioni a rischio elevato». Tutti i vaccini si basano sull' utilizzo di un virus (virus del raffreddore, del vaiolo del canarino o di quello umano) che contengono geni dell' Hiv da soli o combinati con pezzi di Dna che servono per produrre proteine dell' Hiv. Prossimi traguardi? Usare anche il virus del morbillo come «trasportatore» di geni dell' Hiv nel corpo umano e stimolare le difese protettive.
* * * 40 MILIONI DI CONTAGIATI in tutto il mondo dal virus dell' Aids
* * * 25 MILIONI DI MORTI per Aids nel periodo tra il 1981 e il 2005
* * * LE SPERIMENTAZIONI «Thailandese»: Vaccino con canary-Poxvirus (virus del vaiolo degli uccelli) e una proteina dell' Hiv: sperimentato su 16.400 volontari sani in Thailandia. È tollerato: l' efficacia si conoscerà nel 2009 *** «Americano»: Vaccino con Adenovirus (virus del raffreddore) e geni di proteine dell' Hiv: è allo studio su persone sane, ma a rischio. È diretto contro il virus diffuso nei Paesi occidentali (virus di tipo B) *** «Sudafricano»: È il vaccino «americano» che ora viene sperimentato in Sudafrica: si pensa che possa essere efficace anche contro il virus di tipo C, diffuso in Africa *** «Europeo»: Vaccino con Poxvirus (virus del vaiolo umano), sperimentato su 140 persone in Francia, Germania, Svizzera e Gran Bretagna. Se dimostrerà di stimolare il sistema immunitario, lo studio proseguirà

Adriana Bazzi, Corr. 27/7/07




venerdì 27 luglio 2007

L'originalità dei giornali

Stesso identico titolo di apertura per Corriere, Repubblica e Stampa il 23 luglio. Guardare per credere.

Corriere
Repubblica
Stampa

giovedì 26 luglio 2007

La vita di Ulrich Muehe, grande attore beffato dal destino

Se n'è andato all'apice della carriera Ulrich Muehe, l'attore protagonista de "Le vite degli altri", morto domenica per le conseguenze di un cancro allo stomaco.
Appena cinque mesi fa Muehe ritirava a Los Angeles il premio Oscar per la migliore pellicola in lingua straniera e per quel suo ruolo da agente della Stasi (la polizia segreta della Germania dell'est) prima devoto e lentamente sempre piu' distante dai metodi della Ddr che ne hanno fatto un simbolo.
E' forse questo il motivo per cui la notizia del decesso, comunicata oggi, ha suscitato un lutto tanto profondo in Germania: il suo personaggio ha reso evidente il minuzioso sistema di sorveglianza della Ddr e riaperto un dibattito che si considerava superato.
"Berlino, citta' della cultura, e' addolorata per la scomparsa di un grande artista, un maestro che riusciva sempre a stupire con la sua poliedricita'", ha detto il sindaco della capitale tedesca Klaus Wowereit.
Col suo lavoro Muehe ha mostrato a innumerevoli persone "le catastrofiche conseguenze" del regime della Germania orientale, ha spiegato Andreas Schulze, portavoce dell'autorita' che gestisce i documenti della Stasi. La stessa nei cui archivi il protagonista del film di Florian Henckel Von Donnersmarck, il drammaturgo Georg Dreyman, scopre alla fine di essere stato coperto e protetto dallo stesso agente Wiesler (Muehe) che avrebbe dovuto incastrarlo.
La Ddr e' stata un elemento costante nella vita di Muehe. Nato 54 anni fa a Grimma, in Sassonia (est), l'attore si trasferi' ben presto a Berlino per entrare nella compagnia del Volksbuehne, uno dei teatri della parte orientale della capitale divisa. Poco dopo dara' vita a una delle coppie simbolo della Defa (gli studios della Ddr) insieme alla seconda moglie, Jenny Groellmann, accusata lo scorso anno di aver collaborato con la Stasi.
La stessa fine della Germania dell'Est porta, in parte, la sua impronta. Muehe fu infatti tra gli ispiratori delle dimostrazioni sulla Alexanderplatz che a inizio novembre 1989 accelerarono la caduta del Muro. Lo stesso muro davanti al quale, anni prima, l'attore aveva prestato il suo servizio militare.
Domenica l'ammissione a un giornale tedesco: "Si', sono malato di cancro; spero di rimettermi presto". Lo stesso giorno Muehe se n'è andato. In silenzio, proprio come il personaggio della spia che gli restera' legato.

da rainews24

"L'eutanasia non mi fa paura"

Adolfo Baravaglio respira da solo ma è paralizzato. La sua intervista a Rep., 25/7/07

Qui l'intervista a Giovanni Nuvoli, Corr. 15/3/07
Che cosa desidera in questo momento? "Un panino con la mortadella" rispose Nuvoli.

martedì 24 luglio 2007

L'indulto un anno dopo. Di Pietro: "E' stato utile soltanto per Previti e soci"

Grazie all'indulto sono usciti dalle carceri 26.570 persone: 5.528 sono già ritornate dentro. L'analisi di Guido Ruotolo, Stampa, 24/7/07
Per Antonio Di Pietro, il provvedimento è stato approvato per un evidente conflitto di interessi della classe politica.

Di Pietro: "Utile soltanto a salvare Previti e soci"
Ministro Antonio Di Pietro, un anno dopo l’entrata in vigore dell’indulto, è cambiata la sua posizione? «Ero, sono e sarò sempre contrario. L’indulto è stato proposto e attuato con una motivazione di fondo: decongestionare le carceri e fare stare meglio i suoi abitanti, i detenuti e gli operatori penitenziari».

Oggettivamente, ministro, da questo punto di vista l’indulto ha centrato i suoi obiettivi.
«Oggi le carceri scoppiano nuovamente e chi si trova al loro interno sta male ugualmente. Un anno dopo, se dovessimo ritenere valide quelle motivazioni nobili che portarono il Parlamento a varare l’indulto, dovremmo rifare un nuovo provvedimento di clemenza. La verità è che all’epoca, un anno fa, fu fatto l’indulto anche per inconfessabili motivazioni ignobili».

Quali?
«Far evitare il carcere a chi doveva scontare una pena, da Previti a compagnia bella. Con l’indulto, ricordo, si è anche stabilita la regola per cui chi veniva condannato a una pena inferiore ai tre anni, di fatto poteva non essere raggiunto da provvedimento di esecuzione pena. Insomma, chi doveva affrontare la detenzione per Tangentopoli varie lo ha evitato».

Faccia qualche esempio.
«I furbetti del quartierino».

Ministro, l’indulto è stato il primo passo falso del governo e della maggioranza?
«Sì, è stato il primo errore del governo e della maggioranza parlamentare. L’errore oserei dire strutturale, di credibilità sta nel non avere attuato una politica giudiziaria in discontinuità con il governo di centrodestra. Penso all’indulto, appunto, che non andava fatto, alla riforma dell’ordinamento giudiziario del ministro Castelli che - stavo dicendo avevamo messo a verbale - avevamo scritto nel programma avremmo cambiato in sette giorni e invece l’abbiamo modificato in modo tale da scontentare la magistratura. Posso proseguire?».

Ministro la sua è una requisitoria implacabile contro il governo e la maggioranza di cui fa parte. Tant’è, continui...
«In termini di politica giudiziaria non abbiamo accorciato per niente i tempi del processo. Risorse per la giustizia per far funzionare le strutture non se ne sono viste. Nel merito poi siamo stati contigui al centrodestra. Anzi, in questi ultimi giorni siamo andati oltre: rispetto alla Casa delle libertà che ha sempre criminalizzato e delegittimato i magistrati che indagavano per esempio politici di quella parte, allo stesso modo si sta comportando il centrosinistra in questi giorni criminalizzando i comportamenti dei magistrati e arrivando al punto che un Guardasigilli, con il consenso di ampie parti della maggioranza, sindaca un atto e non un comportamento di un giudice, il gip di Milano Clementina Forleo, arrogandosi il ruolo di supergiudice che può sindacare un atto giurisdizionale di un altro giudice».

Fin qui la requisitoria. Non vede neppure un’attenuante per evitare l’ergastolo all’imputato governo? Per esempio, le Forche Caudine del Senato?
«La credibilità del centrosinistra è stata minata non perché al Senato c’è un voto di differenza ma perché le decisioni che prendiamo sono di compromesso al ribasso, scollegate dalla volontà collettiva della maggioranza».

Siete in un cul de sac?
«Proprio per questo dico che dobbiamo essere coerenti. Quel voto in più sarebbe tale anche senza compromessi al ribasso. Per questo penso che quando si dovrà discutere le autorizzazioni all’utilizzo delle intercettazioni telefoniche del caso Unipol-Bnl-Antonveneta, sarebbe utile anche per i diretti interessati dare il via libera. Alla fine, per riconquistare una credibilità occorre solo avere coraggio».

Giovanni Nuvoli è morto, dopo otto giorni di agonia

Giovanni Nuvoli è morto. Non per la sla, di cui era malato. E' morto di fame, con il respiratore ancora attaccato. Dopo otto giorni di agonia. Si è lasciato morire, non potendo sopportare la sofferenza della sua condizione: da quattro anni era immobile, pesava 25 chili e parlava con i movimenti degli occhi.

Proprio ieri Mario Riccio, il medico che staccò la spina a Piergiorgio Welby, è stata prosciolto dal gup di Roma. Secondo la sentenza, Welby aveva diritto di chiedere l'interruzione della ventilazione meccanica e il medico aveva il dovere di assecondarlo.

Il cardinale Saraiva Martins, prefetto per la Congregazione per le Cause dei santi, ha commentato: "La sofferenza per i cristiani è un valore".
In Parlamento, dopo mesi di discussione, 47 "esperti" e chissà quanti esseri umani morti come Giovanni Nuvoli, non si riesce a trovare un accordo sul testamento biologico.

lunedì 23 luglio 2007

sabato 21 luglio 2007

Se il parlamento rende utilizzabili le intercettazioni

Il giudice per le indagini preliminari di Milano, Clementina Forleo, chiede al Parlamento di rendere "utilizzabili" nel processo le intercettazioni telefoniche in cui sono incappati i Ds Massimo D'Alema, Nicola Latorre, Piero Fassino; il senatore e i deputati di Forza Italia, Grillo, Comincioli e Cicu. Il ceto politico - in coro e con allarme, a destra come a sinistra - discute i toni e le parole che il gip, Clementina Forleo, ha ritenuto di adoperare nella sua ordinanza. Il ministro di Giustizia si spinge addirittura a ipotizzare contro il giudice "una potenziale lesione dei diritti e dell'immagine di soggetti estranei al processo". I "soggetti estranei" sarebbero i politici di cui si parla. Al contrario, il giudice li definisce "complici consapevoli" dei reati ipotizzati nel tripartito progetto di scalata Antonveneta/Bnl/Rcs-Corriere della Sera. Chi è chiamato a giudicare? Il ministro o il giudice? Forse il giudice anche quando si tratta di politici, e allora la confusione di linguaggi, interessi e opposte (e forzate) interpretazioni può far perdere il filo. Che cosa accade? Accade che, dopo la pubblicazione a goccia e a boccone, delle intercettazioni di due anni fa finalmente abbiamo - con la richiesta di utilizzabilità - un giudice che configura penalmente "il fatto" e non è tenero con i politici coinvolti nell'affare. Al giudice, i politici appaiono non "passivi ricettori di informazioni pur penalmente rilevanti né personaggi animati da una sana tifoseria per opposte forze in campo, ma consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata che si stava consumando ai danni dei piccoli e medi risparmiatori, in una logica di manipolazione e lottizzazione del sistema bancario e finanziario nazionale".

I politici, dunque, non stavano soltanto alla finestra per guardare e applaudire o fischiare, ma erano sul terreno di gioco a giocare una partita che era anche loro. Ma i dialoghi telefonici giustificano questa approssimata - preliminare, appunto - convinzione? Va detto che nessuno può dirla spensieratamente ballerina. Anche senza trarre affrettate conclusioni di colpevolezza o di innocenza, è indubbio che quelle conversazioni hanno bisogno di spiegazioni, approfondimenti, indagini. Il reato degli "scalatori" è documentato. Ammettono di aver messo insieme il 51 per cento prima di lanciare un'offerta pubblica di acquisto (opa) obbligatoria già quando si detiene il 30 per cento. Confessano candidamente come hanno occultato gli accordi sotto banco. Peccano di "insider trading" e "passano" quelle informazioni privilegiate a soggetti non legittimati a riceverle. Bene, fin qui tutto chiaro. Ma i politici? Non si limitano a raccogliere notizie, a tenersi informati sugli eventi. Per il giudice, intervengono, si danno fare per rimuovere o aggirare gli ostacoli. Hanno un ruolo attivo. Sono partecipi (se complici appare troppo). Per usare le parole di Clementina Forleo, sono "pronti e disponibili a fornire loro supporti istituzionali". Giovanni Consorte (Unipol) giunge a chiedere a D'Alema e Latorre un aiuto: "Stiamo messi così, adesso dovete darci una mano a trovare i soldi, no?". E Latorre: "Vabbé, a disposizione". E, più tardi D'Alema, a un Consorte che gli racconta delle sue riunioni con il mondo cooperativo, chiede: "Di quanto hai bisogno ancora?". "Non tantissimo, di qualche centinaio di milioni di euro", risponde l'altro. Appare chiaro dalla lettura dell'ordinanza che, per il giudice, questi colloqui sono frammenti d'indagine che avrebbero giustificato un'iscrizione al registro degli indagati e un'investigazione severa. Iniziative che non sono mai decollate per la inutilizzabilità delle intercettazioni "politiche". Una volta utilizzabili - sembra di capire - il giudice si attende dal pubblico ministero un'imputazione e, in sua assenza, appare pronto a chiederla coattivamente. Quindi, se il Parlamento dovesse liberare quelle carte è molto probabile che soprattutto D'Alema e Latorre saranno indagati. Ora ci si deve interrogare sulla correttezza delle mosse del giudice. In altri termini, la legge consente al giudice per le indagini preliminari di "leggere" con tanta severità le carte, giungendo anche a una prima conclusione su soggetti che non sono stati mai ufficialmente indagati? Non c'è dubbio che la Forleo si muove nell'ambito delle regole. Potrebbe addirittura indicare al pubblico ministero quali aspetti dell'affare approfondire. Deve spiegare però al Parlamento la necessità di mettere a disposizione della giustizia quelle intercettazioni. Per farlo, è quasi obbligata a squadernare la rilevanza di quei comportamenti, la loro opacità, l'opportunità di verificarne la consistenza penale. Non c'è dubbio che nel farlo, scivoli in qualche eccesso moralistico e sovrattono. Non sembra che un giudice possa essere, per dirne una, il tutore dell'"immagine del Paese". Ma può una "papera" oscurare i fatti? O gettare in un canto l'esigenza di accertare chi ha fatto che cosa, e perché, in una stagione in cui, come dicono con candore gli intercettati, si voleva "cambiare il volto del potere" italiano? Ora la parola tocca al Parlamento. Che si spera renderà al più presto utilizzabili quelle intercettazioni anche nella consapevolezza che la scelta può significare - per tre uomini del centrosinistra e tre uomini del centrodestra - affrontare i pubblici ministeri, un'istruttoria, un giudice. Una decisione contraria - il rifiuto - creerebbe una nuova nuvola nera sui destini della politica italiana; impedirebbe ai protagonisti di liberare la propria reputazione da ogni sospetto; accentuerebbe la separatezza della politica dal Paese. A chi conviene?

Giuseppe D'Avanzo, Rep. 21/7/07

Accordo sulle pensioni: uno sguardo al passato

Dal prossimo gennaio si potrà andare in pensione con 35 anni di contributi e soli 58 anni di età: due in meno di quanto prevedeva la legge Maroni. Per ritornare sul sentiero previsto da quella legge occorre ora attendere sino al 2011. Il fatto che siano stati trovati, nelle pieghe del bilancio dell’Inps, fondi sufficienti per far fronte alla maggiore spesa pensionistica non cambia il messaggio che il governo ha dato ai cittadini. In una società in cui si vive ormai ben oltre gli ottant’anni, si può continuare a lavorare 35 anni e poi trascorrerne altri 30 gravando sulle spalle dei giovani. È una decisione che va nella direzione opposta rispetto a quanto sta accadendo in Europa e nel mondo. In Spagna e Olanda non si va in pensione prima di aver compiuto 65 anni; in Svezia sono richiesti 65 anni di età e 40 anni di contributi; in Germania 63 anni e 35 di contributi; in Francia, dal primo gennaio, si dovrà aver versato 40 anni di contributi; in Svizzera 65 anni e 44 di contributi. Ancora una volta i sindacati sono riusciti a far prevalere l’interesse di una piccola minoranza — i lavoratori vicini alla pensione — sugli interessi generali, in primis dei giovani, i quali dovranno continuare a pagare contributi salati per consentire all’Inps di erogare pensioni a una minoranza di fortunati.
I sindacati hanno «vinto» anche sulla data alla quale si passerà ai 60 anni: il governo chiedeva il 2010. Hanno anche ottenuto che non si rivedessero i parametri che verranno applicati (non oggi, fra dieci anni) a chi andrà in pensione con il metodo contributivo, nonostante la legge Dini imponesse di farlo quest’anno. I dirigenti sindacali avevano l’occasione per dimostrare che non sono una delle tante lobby che difendono i privilegi di pochi fortunati, l’hanno sprecata. È quasi impietoso ricordare alministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, ciò che egli scriveva solo pochi anni fa, quando era un membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea: «Deve essere innalzata l’età effettiva di pensionamento ... che, nonostante il continuo aumento della speranza di vita, negli ultimi decenni si è ridotta. Attualmente, nell’area dell’euro l’età media effettiva di cessazione dell’attività lavorativa per gli uomini è compresa tra i 58 e i 64 anni; le donne vanno in pensione prima. Di conseguenza, il tempo medio che i pensionati trascorrono in pensione è salito a circa 20 anni, contro i 13 degli anni Sessanta» (Bollettino Bce, aprile 2003). Signor Ministro, Lei ed io apparteniamo ad una generazione di privilegiati, che ancora una volta questa «riforma» ha protetto.
Ma i nostri figli hanno il diritto di sapere perché Lei, in soli quattro anni, ha cambiato così radicalmente idea. Un mese fa a Torino Walter Veltroni ha detto, citando Vittorio Foa, «la destra è figlia legittima degli interessi egoistici dell'oggi. La sinistra è figlia legittima degli interessi di quelli che non sono ancora nati. Dobbiamo essere conseguenti nell'uso del nostro tempo: dedichiamo almeno un'ora al giorno a discutere se si debba andare in pensione a 57, a 58 o a 60 anni, ma solo qualche secondo a progettare una risposta al fatto che continua ad aumentare il numero dei bambini che vivono in famiglie al di sotto della linea di povertà relativa. C’è un patto fra le generazioni che dobbiamo avere il coraggio di non dimenticare ». Parole sagge. Ma il sindaco di Roma e le schiere di intellettuali, politici, artisti, economisti che firmano appelli a sostegno della sua candidatura alla guida del Partito democratico devono spiegarci che cosa pensano della capitolazione del governo e soprattutto che cosa avrebbero fatto fossero stati al suo posto.Altrimenti la costruzione del Partito democratico continuerà ad essere un esercizio della «vecchia politica »: belle parole per non prendere alcun impegno preciso.

Francesco Giavazzi, Corr. 21/7/07

Risparmi per 20 miliardi se le pubbliche amministrazioni fossero virtuose

Se le amministrazioni pubbliche fossero virtuose si potrebbe risparmiare un punto e mezzo di Pil, pari a circa 20 miliardi di euro l'anno. Luigi Giampaolino, presidente dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e fornitura, nella sua relazione annuale per il 2006, ha sottolineato che questa cifra potrebbe essere tagliata se le amministrazioni spendessero meglio. Giampaolino ha sottolineato che solo per beni e servizi la Pubblica amministrazione in Italia spende ogni anno una cifra pari a circa 117 miliardi di euro, che corrisponde all'8% del Pil. «I conti - spiega Giampaolino - sono presto fatti. Studi a campione riferiti al periodo 2000-2005 rilevando variazioni significativi nei prezzi pagati dalle diverse Pubbliche amministrazioni hanno calcolato che se tutte le amministrazioni pagassero lo stesso prezzo, portando le meno virtuose a livello delle più virtuose, si potrebbe ottenere un risparmio di circa il 20%: vale a dire un punto e mezzo circa del Pil. Una cifra comunque sottostimata alla quale vanno aggiunte le spese per il lavori pubblici».Secondo Giampaolino «è di tutta evidenza non solo l'opportunità, ma l'indispensabilità di un'azione di vigilanza e la missione quindi dell'autorità preposta istituzionalmente a tale azione, volta a garantire, attraverso la libera concorrenza nei mercati di riferimento, anche la qualificazione e il contenimento della spesa pubblica».Confermata la tendenza delle amministrazioni a bandire gare di piccoli importi. «Il mercato è molto frammentato - si legge nel rapporto - sia sul versante dell'offerta che su quello della domanda», con il risultato che le imprese italiane difficilmente hanno interesse a stutturarsi «per competere fuori del nostro Paese dove la concorrenza ha come protagonisti gruppi di grandi dimensioni». Riscontrata anche «la ricorrenza di non trascurabili indici di accordo tacito tra le imprese partecipanti alle gare diretto a pilotare l'aggiudicazione e acquisire il controllo delle commesse».Giampaolino ha anche denunciato gli scarsi investimenti in infrastrutture di Autostrade. Nel corso del quinquennio 2000-2005, ha detto Giampaolino, «si è avuto un incremento tariffario molto superiore all'inflazione, in assenza di tutti gli investimenti previsti nei piani», con «un aumento dei ricavi a causa della sottovalutazione dei volumi di traffico all'atto della sottoscrizione delle convenzioni di concessione». Il presidente Giampaolino ha ricordato l'indagine condotta dalla sua Autorità di vigilanza con la quale si rilevò «che le sub concessionarie non hanno rispettato la percentuale massima prevista dalla legge per quanto riguarda gli affidamenti a imprese proprie e/o controllate, con grave lesioni degli obblighi di legge e del bene della concorrenza e del mercato in questo importante settore».Altissime le spese per gli arbitrati, che sono costati oltre 291 milioni di euro, escluse le spese relative allo svolgimento del giudizio. «Un business smodato per i cosiddetti arbitri - commenta il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro - per pagare i quali si sono spesi circa 300 milioni di euro, una somma che da sola sarebbe sufficiente per far funzionare l'autorità giudiziaria ordinaria». Soldi che, secondo Di Pietro, andrebbero dati al «ministero della Giustizia per far funzionare i tribunali ordinari, anziché darli agli arbitri che si autoliquidano le proprie parcelle».Questa mattina il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto al Quirinale i componenti dell'Authority per la vigilanza sui contratti pubblici. Oltre al presidente Luigi Giampaolino, anche i componenti, Alessandro Botto, Giuseppe Brienza, Piero Calandra, Andrea Camanzi, Guido Moutier, Alfonso Maria Rossi Brigante. (n.co.) 16/7/07

La mafia e i suoi complici (lettera di G. Caselli)

Lettera di Giancarlo Caselli al Corriere, 19/7/07

Mafia, il puzzo delle complicità e il profumo della libertà

Caro direttore,
Palermo, una capitale europea, come fosse Bagdad. Accadde 15 anni fa, il 19 luglio 1992. Quando in via D' Amelio un' autobomba piazzata da criminali mafiosi fece strage di Paolo Borsellino e dei poliziotti che lo scortavano Paolo Borsellino: «Una di quelle creature rare che ogni tanto il cielo manda su questa terra. Ad una terra che non se la merita». Queste parole di Nino Caponnetto ci interpellano sul che fare per «meritarsi» davvero uomini come Borsellino. Sembrerà una bestemmia, ma sul punto persino la mafia può insegnarci qualcosa. Tre anni fa - ad esempio - la mafia ha «celebrato» a suo modo l' anniversario di via D' Amelio. L' ha celebrato dando fuoco ad una decina di ettari coltivati a grano, ormai prossimi alla mietitura, nella zona di Portella delle Ginestre. «Normale» gesto di protervia delinquenziale? Di più: l' avvio di una strategia di aggressione contro le Cooperative con le quali giovani coraggiosi si organizzano per lavorare le terre confiscate ai mafiosi. In un territorio dove l' egemonia mafiosa impedisce ogni regolare sviluppo dell' economia, violentando il futuro di intiere generazioni, queste Cooperative esprimono una grande voglia di riscatto, sono la tangibile speranza di un forte rinnovamento sociale e culturale. È per ricacciare indietro riscatto e speranza che gli attacchi (incendi e danneggiamenti) cominciati tre anni fa si sono via via intensificati ed estesi. Ecco allora che anche la belva mafiosa può insegnarci qualcosa. Può aiutarci a capire che non teme i proclami, ma le azioni positive. Come quelle delle Cooperative, appunto. Perché l' olio, il vino e la pasta prodotti coltivando le terre confiscate ai mafiosi sono antimafia robusta e concreta. La dimostrazione che la legalità - oltre che manette - può essere piattaforma di lancio per diritti, opportunità, migliore qualità della vita. Quei prodotti sono sintesi di dignità e indipendenza conquistate col lavoro. Sono recupero (parziale ma simbolicamente sempre più significativo) delle ricchezze rapinate dalla mafia alla collettività mediante il sistematico drenaggio delle risorse e la «vampirizzazione» del tessuto economico legale, a forza di estorsioni, usure, truffe, appalti truccati, tangenti, riciclaggio Dunque, un modo serio per fare memoria di Paolo Borsellino (per «meritarci» tutti i morti di mafia che hanno dato la vita per il nostro Paese - in segno d' amore - come testimonianza della loro fede laica o religiosa) è anche sostenere queste Cooperative e tutte le attività finalizzate al reimpiego a fini socialmente utili dei beni confiscati ai mafiosi, in forza della legge 109 del 1996 per la quale «Libera» (l' associazione guidata da Luigi Ciotti) raccolse a suo tempo oltre un milione di firme. Un altro modo per «meritarsi» Paolo Borsellino è fare tesoro delle parole che egli, pochi giorni prima di essere ucciso, pronunziò alla commemorazione di Giovanni Falcone organizzata dall' Agesci di Palermo, nel trigesimo della strage di Capaci. Borsellino (che sapeva di essere condannato a raggiungere l' amico) consegnò ai giovani un suo testamento spirituale, secondo cui «la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti aiutasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell' indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». Dopo le stragi, per un certo periodo (due/tre anni) sembrò che questo puzzo potesse finalmente scomparire. Oggi, invece, lo si sente di nuovo. Vi sono politici, amministratori, imprenditori, operatori economici, medici che ancora intrattengono - abitualmente - proficui rapporti, d' affari o di scambio, con mafiosi o con stabili collaboratori dell' organizzazione. Queste vergognose complicità o contiguità dovrebbero far rizzare i capelli in testa a tutti. Invece, quelli che si indignano sono sempre di meno. Meglio turarsi il naso fingendo di non sentire il puzzo. O cercare di esorcizzarlo autoconvincendosi che così va il mondo. Intanto, chi viene colto con le mani nel sacco può sempre contare sulla solidarietà dei suoi capi cordata, locali e nazionali. Come se la verità e certa politica fossero diventate incompatibili. Come se certa politica - autoassolvendosi in perpetuo - volesse stingere, fino a cancellarle, le frontiere fra lecito ed illecito, morale ed immorale. Ma così, invece di «meritarsi» Paolo Borsellino, si disperde la ricchezza che nasce dal suo sacrificio. Si calpestano la sua esperienza e la sua memoria. E le mafie prosperano.

venerdì 20 luglio 2007

Un euro al giorno per girare Parigi in bici. Quando anche a Milano e Roma?

Un euro al giorno per girare Parigi in bici: è l'iniziativa denominata 'Velib', che da domenica prossima consentirà di prendere in prestito una bicicletta, per circolare facilmente nella capitale francese senza inquinare ed evitando il traffico. Secondo il programma del progetto, lanciato dal sindaco Bertrand Delanoe, Parigi predisporrà di 10.648 biciclette in 750 "stazioni" e prevede di raddoppiarne il numero entro il 2008. Per prevenire eventuali furti, le due ruote saranno equipaggiate con lucchetto e antifurto; i ciclisti pagheranno una cauzione che perderanno se il loro mezzo di trasporto scomparirà. Se l'abbonamento per un giorno costa 1 euro, chi vorrà sottoscriverlo per un anno pagherà 29 euro e potrà prenotrarsi anche sul web.'Velib', che è l'acronimo di "Vélo" e "Liberté", prevede il raddoppio delle 'ciclo-stazioni' entro il 2008, fino a un numero di 1.451, da disseminare in tutta la città, una ogni 300 metri: si potrà affittare e restituire una bici quasi ovunque. Lione ha preceduto la capitale con un sistema simile, riscontrando successi, come ad Oslo, Copenaghen, Ginevra, Barcellona e Ravenna. Dal canto suo, Parigi offre 370 chilometri di piste ciclabili e corsie preferenziali, dove ogni giorno si registrano circa 150 mila spostamenti. Pedalare per le strade della capitale non garantirà ai parigini una 'vie en rose', ma di sicuro aiuterà a creare una 'ville en vert'.

da rainews24.rai.it

giovedì 19 luglio 2007

L'Ue boccia la legge Gasparri: "Da cambiare entro due mesi"

La Commissione europeaha bocciato la legge Gasparri e ha ingiunto all' Italia di modificare entro due mesi la normativa in materia di radiotelediffusione in conformità «al quadro normativo comunitario relativo alle comunicazioni elettroniche». L' Ue ritiene infatti che la legge Gasparri «introduca restrizioni ingiustificate alla prestazione di servizi di radiotelediffusione e attribuisca vantaggi ingiustificati agli operatori analogici esistenti» (Rai e Mediaset, ndr).

DEFERIMENTO A CORTE EUROPEA - Secondo la Commissione europea, su proposta del commissario alla Concorrenza Neelie Kroes, la situazione attuale per quanto riguarda le trasmissioni in tecnica analogica, «dove solo un numero ristretto di operatori è in grado di competere nel mercato dei servizi di radiotelediffusione, rischia di riprodursi nel settore della televisione digitale terrestre, il che significa continuare a offrire minori possibilità di scelta ai consumatori italiani». Se le autorità italiane «non prenderanno le disposizioni necessarie per conformarsi al parere motivato entro due mesi dal suo ricevimento, la commissione può decidere di deferire l' Italia alla Corte di giustizia delle Comunità europee».

DDL FERMO IN PARLAMENTO - Per la commissione, la normativa italiana consentirebbe alle emittenti esistenti di acquistare un numero di frequenze per il digitale «superiore a quello necessario» e di «mantenere il controllo sulle frequenze e sulle reti analogiche anche dopo la data prevista per la cessazione della diffusione analogica». Bruxelles riconosce che il governo italiano ha elaborato un disegno di legge di modifica(legge Gentiloni, ndr), ma «è ancora all'esame del Parlamento a quasi un anno dall'invio della lettera» di avvertimento dell'Ue.

da corriere.it

mercoledì 18 luglio 2007

Dell'Utri, tentata estorsione in concorso con un boss. Ecco perché è stato condannato

«Non risulta esistesse fra Vincenzo Garaffa (ex presidente della Pallacanestro Trapani e poi senatore repubblicano, ndr) e Publitalia alcun contratto in base al quale il primo fosse debitore di alcunché alla seconda. Né tale obbligo poteva derivare da impegni, anche verbali o informali, che potessero quantomeno legittimare il convincimento» di Marcello Dell' Utri «di essere effettivamente creditore per la somma richiesta». Anzi, «nel caso concreto si esigeva la consegna di denaro contante, senza fattura, senza ricevuta, senza contabilizzazione». E difatti «da parte di nessuno e per conto di nessuno fu adombrata la possibilità di ricorrere al giudice per risolvere la questione», essendo «evidente che Dell' Utri era a conoscenza della non tutelabilità del diritto che si pretendeva di far valere. Nessun diritto da tutelare, nessuna pretesa azionabile, nessuna prospettazione di ricorso al giudice, ma soltanto la minaccia a Garraffa di "fargli cambiare idea": con ciò confermando che» Dell' Utri «sapeva bene che ricevere o meno il pagamento non dipendeva da una situazione di diritto, ma soltanto da una situazione di forza, dalla pressione esercitata su Garraffa, dalla possibilità di pretendere il pagamento con una semplice richiesta, piuttosto che con mezzi violenti o minacciosi» fatti balenare tramite un boss trapanese. In base a queste motivazioni, depositate nei giorni scorsi, la terza Corte d' appello ha confermato la condanna a 2 anni del parlamentare di Forza Italia (che trova «ingiusta» le sentenza e si prepara a impugnarla in Cassazione), in concorso con l' ergastolano capomafia trapanese Vincenzo Virga, per tentata estorsione aggravata nel 1992 di Garraffa. Per il basket, Garraffa aveva ottenuto dalla «Birra Messina» (gruppo «Dreher-Heineken») una sponsorizzazione di 1,5 miliardi di lire, ma in seguito - secondo l' indagine del capo della Mobile trapanese Giuseppe Linares poi sviluppata dal pm Maurizio Romanelli - esponenti di Publitalia (di cui era amministratore Dell' Utri) gli avrebbero chiesto la retrocessione «in nero» di metà dei soldi, «allo scopo di creare fondi occulti». Al rifiuto di Garraffa, Marcello Dell' Utri lo avrebbe minacciato prima a parole («Io le consiglio di ripensarci, abbiamo uomini e mezzi che la possono convincere a cambiare opinione»), poi con la visita del capomafia trapanese Vincenzo Virga venuto in ospedale a parlargli del debito, infine giungendo (per Garraffa) a porre il veto alla sua presenza in una puntata antimafia del Maurizio Costanzo Show. Per la Corte d' appello che ha emesso la sentenza, dunque, nessun esercizio arbitrario delle proprie ragioni, come invece prospettato in via subordinata dalla difesa di Marcello Dell' Utri. Al quale, anche in virtù di precedenti condanne per false fatturazioni, la motivazione (estensore Francesca Manca) nega le attenuanti generiche che farebbero scattare la prescrizione: «Il suo impegno culturale è circostanza estranea all' oggetto di valutazione che, per quanto ampio, non può estendersi agli interessi personali, pur apprezzabili, dell' imputato». E «del tutto inopportuno, poi, sarebbe compiere una valutazione, a questi fini, del suo impegno politico».

IL BASKET Lo sponsor L' ex presidente della pallacanestro Trapani aveva ricevuto una sponsorizzazione dalla «Birra Messina» di 1,5 miliardi di lire
LE MINACCE Fondi neri Esponenti di Publitalia avrebbero chiesto al capo della «Pallacanestro» di restituire in nero la metà dei soldi. Scopo? Creare fondi occulti


Luigi Ferrarella, Corr. 17/7/07

martedì 17 luglio 2007

Una vita contro l'amianto «Ora sono malata anch'io»

E quando succede, non sei mai pronto. Non puoi credere che sia davvero toccata a te. Una mattina di fine febbraio del 2006, la preside Luisa Minazzi si svegliò con un fastidioso mal di schiena, un dolore insistente appena sotto la scapola sinistra. Le tornò in mente l' operazione di scoliosi che aveva subito da piccola, si aggrappò a quello, che doveva fare. «È chiaro, avevo un pensiero che cercavo di ricacciare indietro. Mi sembrava una beffa cosmica. Pensavo che gli anni di lotta al "male grigio" producessero degli anticorpi. Che stupida». Il mesotelioma pleurico se ne frega di chi sei. Qui a Casale Monferrato e nelle valli intorno alla colata di cemento che ha coperto l' Eternit, se ne frega di tutto. Con gli ultimi necrologi di luglio, sono stati superati i mille morti dall' inizio degli anni Ottanta. Una strage che passa sotto silenzio permanente. Luisa Minazzi siede dietro alla sua scrivania, da qualche mese è tornata al lavoro. Dirige le scuole elementari e dell' infanzia del secondo circolo di Casale. È una donna minuta, quasi austera nella sua sobrietà. Quella strage diluita nel tempo l' ha vissuta fin dall' inizio. «C' erano ex operai in pensione che mentre giocavano a bocce sentivano una fitta alla schiena. Andavano dal dottore e dicevano: "anduma propi mal". Già sapevano, rassegnati e increduli». All' inizio degli anni Ottanta è stata una delle fondatrici di Legambiente a Casale. Cortei, picchetti e manifestazioni fino a quando, nel 1986, l' Eternit non venne chiusa. Nel 1995 divenne assessore all' Ambiente, e contribuì all' ordinanza con la quale si proibiva l' uso dei manufatti di Eternit sull' intero territorio. Nel casalese si continua a morire, oggi più di ieri. Se all' inizio erano solo gli ex operai Eternit, da un decennio il pulviscolo di amianto che galleggia nell' aria entra nei polmoni dei cittadini comuni. «Come quando in guerra cominciano a morire i civili», dice Bruno Pesce dell' Associazione vittime dell' amianto. Basta sfogliare il Monferrato, il bisettimanale locale che è costretto a tenere il conto. L' orafo di Valenza che una volta in pensione si era fatto la villa per far giocare i nipoti; la macellaia della frazione di Vignale che aveva passato la sua vita tra quarti di bue e campi; l' impiegato del Comune superstizioso che davanti all' Eternit non ci voleva passare, neppure dopo che nel 2001 è diventato un sarcofago di cemento. Gente che non centrava nulla con la fabbrica dei tumori. Solo, respirava quest' aria. Se ne sono andati con i polmoni pieni d' acqua, gonfi di morfina per non sentire il male. Il mesotelioma ha anche trent' anni di latenza, ma quando arriva va di fretta. Nel 2005, il Senato francese ci ha messo solo quattro mesi per stilare un rapporto sulla catastrofe sanitaria dell' amianto, dicendo che il peggio deve arrivare, sborsando soldi per la ricerca sulle cure. Di questa catastrofe europea, Casale Monferrato è la capitale indiscussa. Ma non ne parla nessuno. È un silenzio, racconta Luisa Minazzi, che è penetrato nelle coscienze. «Ci sono indignazione e paura mischiate ad un atteggiamento fatalistico. Prima o poi arriva, e non ci si può fare niente». Le statistiche dicono che nel casalese una persona su tre sa di cosa morirà. Luisa ha seguito il suo personale calvario, tre biopsie, due cicli di chemio, asportazione della pleura e di un pezzo di polmone, altri cinque cicli di chemio. Alla fine di aprile ha finito le cure. E come prima cosa ha scritto al Monferrato. Una lettera per raccontare la malattia, e dire che non tutto è perduto. La donna che «combattendo il male credeva di averlo esorcizzato», si è messa a nudo in pubblico, per dare forza agli altri come lei. «L' ho fatto perché non è vero che si deve morire per forza. Lo so che non si guarisce, che ancora oggi ho un focolaio da tenere sotto controllo. Ma ci sono delle cure sperimentali, dei vaccini che in alcuni casi hanno già fatto scomparire del tutto il tumore. Servono i finanziamenti dello Stato per gli studi, e questo silenzio non aiuta certo a trovarli». Il padre di Luisa faceva l' operaio alla Eternit. Se l' è cavata con l' asbestosi. Quand' era bambina, lei giocava in cortile con la sorella sui cumuli di polverino Eternit. «Chi poteva sapere? È una vergogna, quello che è stato fatto a Casale Monferrato. I responsabili dell' Eternit, che sapevano ma non hanno hanno fatto nulla, dovrebbero processarli all' Aja per crimini contro l' umanità». Quest' anno, Luisa ha presentato denuncia al procuratore Raffaele Guariniello, che sta chiudendo un' inchiesta per disastro doloso nella quale sono indagati Thomas e Stefan Schmidhaeny, proprietari della multinazionale Eternit. Ancora adesso, per alcuni è come se quei mille morti, amici, conoscenti, parenti, fossero figli di nessuno. I lavori di ricerca e rimozione del micidiale polverino e dei manufatti in Eternit ogni tanto si scontrano con piccinerie che sfociano nell' incoscienza. Il garage del palazzo dove vive Luisa ha ancora il suo bel tetto in Eternit. I condomini si sono opposti alla sua rimozione fino a quando non è arrivato il contributo del Comune. Prima, costava troppo. È contro tutto questo che Luisa ha voluto urlare. Ha accettato di mostrare il suo corpo, smagrito, ma ancora in forma. È tornata a scuola, lavora e combatte il male grigio. I finanziamenti pubblici per la sperimentazione sono la chiave per scardinare il silenzio, servono a dare una speranza, a lei e a chi vive tra queste colline. «Il mesotelioma non è una piaga nazionale, è una piaga casalese. E allora cosa vogliamo fare? Andare avanti così, a contare i morti per i prossimi cinquant' anni, considerandoli come effetti collaterali e ineluttabili? Ci deve essere un' altra possibilità, non solo per me. Perché tutto deve finire con la morte?». La domanda va girata a chi deve erogare questi finanziamenti. Lei si alza dalla cattedra con sguardo deciso, quasi aggressivo. «Lo so cosa pensa, è in imbarazzo. Non sa come salutarmi. Il mesotelioma, la diagnosi più infausta. Io credo che si debba combattere. Mi dica arrivederci, e non addio».

650 I LAVORATORI uccisi dall' amianto a Casale
409 GLI ABITANTI rimasti vittime del «male grigio»
30 GLI ANNI di latenza media del mesotelioma


Marco Imarisio, Corr. 16/7/07

domenica 15 luglio 2007

Previti aveva corrotto il giudice. Così la Mondadori passò a Berlusconi

La sentenza che permise a Silvio Berlusconi di sottrarre la Mondadori al Gruppo Espresso-la Repubblica fu comprata con 425 milioni di lire forniti dal conto All Iberian di Fininvest a Cesare Previti e poi, dall'avvocato di fiducia di Silvio Berlusconi, consegnati al giudice Vittorio Metta. La Cassazione condanna definitivamente Cesare Previti, il giudice corrotto e, quel che soprattutto conta, rimuove una patacca che è in pubblica circolazione da due decenni. L'uomo del fare, Silvio Berlusconi, è l'uomo del sopraffare, del gioco sottobanco, della baratteria illegale. La sentenza dimostra la forma fraudolenta e storta della sua fortuna imprenditoriale. Mortifica la koiné originaria con cui Berlusconi si è presentato al Paese ricavandone fiducia e consenso, entusiasmandolo con la sua energica immagine di imprenditore purissimo capace di rimettere in sesto il Paese - e rimodellarne il futuro - con la stessa sapienza e determinazione con cui egli aveva costruito il suo successo, conquistato aziende e quote di mercato, sbaragliato i competitori.
Berlusconi, se non sapeva delle manovre di Previti (e non si può dire il contrario), è stato un gonzo e, nella sua formidabile ingenuità, ha trascinato il Paese e le sue regole verso la crisi per difendere un mascalzone che soltanto agli occhi del Candido di Arcore appariva un maestro del diritto e un martire della giustizia.
La sentenza della Cassazione scolpisce dunque un'altra biografia di Berlusconi. Ci dice che non è oro quel che riluce nella sua storia imprenditoriale. Sapesse o non sapesse quali erano i metodi criminali del suo avvocato, il profilo di imprenditore dell'uomo di Arcore ne esce irrimediabilmente ammaccato, deformato. La sua Fininvest ha barato. Il suo avvocato giocava con carte truccate.


I fatti sono noti.
Il lodo arbitrale Mondadori risale al 21 giugno 1990. Riguarda il contratto Cir-Formenton. La decisione è assunta dai tre arbitri, Carlo Maria Pratis, Natalino Irti e Pietro Rescigno, incaricati di dirimere la controversia tra Carlo De Benedetti e la famiglia Formenton per la vendita alla Cir da parte dei Formenton di 13 milioni 700 mila azioni Amef (il 25,7% della finanziaria che controlla la Mondadori) contro 6 milioni 350 mila azioni ordinarie Mondadori. Il lodo è favorevole alla Cir e dà a De Benedetti il controllo del 50,3% del capitale ordinario Mondadori e del 79% delle privilegiate. Berlusconi perde la presidenza che va pro tempore al commercialista Giacinto Spizzico, uno dei quattro consiglieri espressi dal Tribunale, gestore delle azioni contestate.

Il 24 gennaio 1991, la Corte d'Appello di Roma presieduta da Arnaldo Valente e composta dai magistrati Vittorio Metta e Giovanni Paolini dichiara che una parte dei patti dell'accordo del 1988 tra i Formenton e la Cir è in contrasto con la disciplina delle società per azioni. Quindi, è da considerarsi nullo l'intero accordo e anche il lodo arbitrale. Berlusconi riconquista la Mondadori.

Vittorio Metta è il giudice corrotto da Cesare Previti, dice ora la Cassazione. Delle due, l'una. Se sapeva, Silvio Berlusconi è un complice che si è salvato soltanto perché, per le sue pubbliche responsabilità politiche, è parso meritevole delle "attenuanti generiche" così accorciando i tempi di prescrizione e uscendo dal processo qualche anno fa. Se non sapeva, l'esito non è che sia più gratificante. Perché bisogna concludere che l'ex-presidente del Consiglio non è poi l'aquila reale che ama dipingersi. Ha accanto un lestofante. Non se ne accorge. Ne è beffato, ingrullito per anni, per decenni, nella sua totale insipienza. Gli affida "un mandato professionale molto ampio per rappresentare la persona fisica come il gruppo Berlusconi". Lo ha raccontato lo stesso Previti: "Io rappresentavo il dominus per le questioni legali, sceglievo gli avvocati, esaminavo nei dettagli tutti gli argomenti che avremmo usato e anche le persone e le operazioni da organizzare nelle varie situazioni".

E' un ruolo occulto, segretissimo e non se ne comprende la ragione (l'evasione fiscale non può spiegare tutto). Non c'è (né Previti lo ha mostrato in anni di processi) un solo documento processuale che porta la sua firma: un atto di citazione, una comparsa di risposta, una memoria conclusiva, un parere giuridico, un atto di transazione; come non esiste neppure (né è stata mostrata) una fattura, una ricevuta informale, un estratto dei libri contabili di Fininvest, un qualsivoglia documento che attesti la causale dei pagamenti effettuati da Finnvest a favore di Cesare Previti.

Berlusconi poteva non sapere di essersi tenuto in casa per decenni quel mascalzone. Meglio, gettiamo una buona volta ogni sospetto o incredulità e diciamolo chiaro. Silvio Berlusconi non sapeva, non ha mai saputo né immaginato per un attimo che ceffo fosse Previti e quali i suoi metodi di lavoro. L'uomo di Arcore era così accecato dal suo candore, dall'amicizia per il suo fedele sodale, che quando ne ha la possibilità, nel 1994, propone addirittura quel corruttore di giudici come ministro di Giustizia. Il Paese si salva per l'ostinazione di Oscar Luigi Scalfaro che dirotta il malfattore alla Difesa. E, nonostante il segnale e la documentazione offerta dalla magistratura, nemmeno allora Silvio Berlusconi nella sua assoluta dabbenaggine si scuote. Si può dire che una volta ritornato al governo - per salvare se stesso, è vero, ma anche e soprattutto il suo complice, che è più esposto per le indagini e per le prove raccolte - assegna a se stesso la missione di gettare per aria codici, procedure, tribunali, ordinamenti, accordi internazionali al fine di evitare guai all'avvocato che credeva immacolato. Il Parlamento che Berlusconi governa con una prepotente maggioranza non lascia intoccato nulla. Cambia le prove, se minacciose. Il reato, se provato. Prova a cacciare i giudici, a eliminare lo stesso processo. Non ci riesce per l'opposizione di un'opinione pubblica vigile, per l'intervento della Corte Costituzionale che protegge le regole elementari dello Stato di diritto e il sacrosanto principio della legge uguale per tutti. Meno male, ma il respiro di sollievo non può riguardare Silvio Berlusconi. Per anni ha spaccato il Paese usando come cuneo il processo all'avvocato-barattiere che egli riteneva un "figlio di Maria". Ora qualcosa l'uomo di Arcore dovrà pur dire perché purtroppo qualcosa, questa sentenza, dice di lui. Nella sua credulità, Silvio Berlusconi ha procurato un danno a se stesso, e tant'è, ma nella cieca fiducia che ha avuto per un avvocato fraudolento egli ha arrecato danno alla politica, alle istituzioni. Forse è una buona idea che dica in pubblico che è stato preso in giro e se ne dispiace.

Giuseppe D'Avanzo, Rep. 14/7/07

"Prendi la Mondadori e scappa", la storia della vicenda Mondadori, Marco Travaglio, Unità 15/7/07

Il gioco dei tassi regala 5 miliardi alle banche

Nell’ultimo anno la Banca Centrale europea ha ritoccato il costo del denaro cinque volte: un quarto di punto a botta fa un aumento dell’1,25%. Le banche italiane hanno ritoccato il costo del denaro sui mutui (e sulle altre forme di credito, dai prestiti ai fidi) all’istante. Nessuna incertezza: paga il cliente. Non si ha notizia, viceversa, di ritocchi dei tassi creditori, quelli pagati dalla banca sul denaro depositato.

E dire che giusto un anno fa il decreto Bersani - una legge dello Stato entrata in vigore il 4 luglio 2006 - stabilì il principio della simmetria. Le banche possono variare i tassi con la Bce, ma se lo fanno sul debito devono farlo anche sul credito. Adusbef, l’associazione dei consumatori specializzata in servizi bancari e finanziari, ha fatto i conti: aggirando la regola sulla simmetria nell’ultimo anno le banche hanno tenuto in cassa 5 miliardi più del dovuto, sui 680 miliardi di depositi bancari custoditi nei caveau Bel Paese. Risultato: 104 esposti ad altrettante Procure e 72 banche denunciate dalle associazioni. Si attende il giudizio dei magistrati. Le banche italiane sono le più care d’Europa, ha detto il governatore di Bankitalia Mario Draghi. È vero, ha risposto il numero uno di Unicredit Alessandro Profumo. Il quale spiega la faccenda così: «Sui mutui siamo più cari perché paghiamo le inefficienze del sistema paese. Se il debitore non paga le rate in Italia servono sette anni per prendere la casa e coprire la perdita. In Germania bastano 12 mesi».

Altre spiegazioni Profumo le ha date alla Commissione Finanze del Senato: «I costi dei conti sono sopra la media Ue perché paghiamo oneri pesanti per la sicurezza». Il conto costa perché in Italia girano un mucchio di rapinatori. Ancora Profumo al Senato: «Le rapine d’Italia rappresentano il 52% del totale europeo, Unicredit spende 11 euro l’anno per la sicurezza di un conto corrente. In Germania ne bastano due». Infine, l’italiano continua a usare - troppo - la moneta: solo il 10% delle transazioni non è cash, a fronte del 35% della Gran Bretagna, del 41% della Francia e del 33% dell’Olanda. Non stupiscono i risultati dello studio con cui Pitney Bowes ha valutato la redditività dei mercati bancari europei: dice che un correntista italiano vale centotrentuno euro l’anno mentre un francese o un tedesco si fermano a 90 euro, e in Inghilterra si precipita a 55 «probabilmente a causa della concorrenza spietata in un paese nel quale l’economia è decisamente deregolamentata e volta al mercato».

Viene il sospetto avesse ragione il ministro dello Sviluppo economico Pierluigi Bersani, che ha investito le banche con una mitragliata di liberalizzazioni tagliaprezzi puntando sull’effetto concorrenza e oggi - di fronte alle difficoltà nel veder applicato il suo decreto - minaccia: «Se le cose non cambiano in fretta, sono pronto a intervenire d’autorità». Nel frattempo i correntisti continuano a faticare di gambe sullo slalom della Bersani, un duello estenuante con le banche. La legge cancella le spese di estinzione dei mutui ma, giura l’Adusbef «ci sono banche e notai che continuano a stipulare contratti con penali del 3%». Una banca è arrivata a chiedere una penale fuorilegge nientemeno che a Antonio Catricalà, presidente dell’Antitrust e primo tifoso della Bersani. La legge introduce la possibilità di «portare» un mutuo da un’istituto a un altro che proponga condizioni migliori? Secondo Adusbef la regola è «inapplicata. Infatti i benefici della concorrenza non si vedono, e a un anno di distanza i mutui italiani restano i più cari d’Europa». Sono cancellate le spese di estinzione dei conti? Diamo a Cesare il suo: «La legge è applicata sui conti correnti. Ma sui conti titoli c’è chi chiede spese fino a 80 euro per titolo trasferito a fronte di un costo industriale di 30 centesimi», laddove la Bersani stabilisce che la banca può esigere solo i costi vivi sostenuti e «documentati».

E il mercato? Fiorisce, anche sulla pelle dei correntisti. Volano gli utili delle banche: più 52% nel 2006. Vola la domanda di credito per i consumi, 93 miliardi chiesti nel 2006 mutui esclusi, tre Finanziarie o il 7% del Pil. La banca vola, i signori correntisti sono pregati di allacciare le cinture di sicurezza.

Marco Sodano, Stampa 14/7/07

giovedì 12 luglio 2007

Il doppio dividendo delle aziende locali. Economico e politico

«I dividendi economici sono quelli assicurati dalle local utilities più profittevoli e cioè soprattutto dalle aziende locali di energia (gas ed elettricità), nella maggior parte dei casi vere e proprie galline dalle uova d'oro in virtù di una rendita di posizione monopolistica. In media ogni dipendente di una local utility operante in campo energetico genera un utile annuo di 37mila euro.
Poi ci sono i dividendi politici che sono invece quelli garantiti dall'occupazione delle aziende pubbliche locali e cioè posti di lavoro e assunzioni parassitarie e lottizzazione dei consigli d'amministrazione e delle più importanti cariche societarie. Di solito queste pratiche provocano inefficienze e forti perdite di bilancio, soprattutto nelle aziende del trasporto pubblico locale, ma questo non sembra preoccupare gli amministratori locali».

“Utilities a doppio dividendo”, F. Locatelli, Sole 10/7/07

«Così Bush censurava la medicina»

"Ogni rapporto sulla medicina che non rientra nell'agenda ideologica, teologica e politica dell'Amministrazione Bush viene ignorato, marginalizzato o semplicemente seppellito".

L'accusa, durissima e inaspettata, viene dal "medico della nazione", l'uomo che per quattro anni - dal 2002 al 2006 - ha guidato su mandato della Casa Bianca il servizio sanitario americano. Richard Carmona ha fatto la sua denuncia alla Commisione di controllo sulle agenzie governative del Congresso americano, enfatizzando la sensazione che i repubblicani negli ultimi sette anni abbiano politicizzato settori del governo fino ad oggi rigorosamente imparziali ed indipendenti, dalla giustizia alla medicina.

M. Calabresi, Rep. 12/7/07

Pensioni, le tre cose che dovrebbero ricordare i sindacati

Epifani e Bertinotti dovrebbero ricordare le seguenti circostanze:

1. I sindacati concordarono con l'allora ministro del Lavoro, Maroni, che la legge istitutiva del famoso scalone che portava in un colpo solo l'età pensionabile da 57 a 60 anni, avrebbe avuto il loro accordo alla condizione che la sua entrata in vigore fosse stata posticipata di tre anni. Epifani ricorda certamente quel patto. Infatti la legge Maroni, approvata dal Parlamento nel 2004, entrerà in vigore soltanto il primo gennaio del 2008.

2. Quanto a Bertinotti e a quelli che si aggrappano al programma elettorale del centrosinistra reclamando l'abolizione dello scalone "senza se e senza ma", la memoria (e il testo di quelle 281 pagine) dovrebbe ricordargli che lo scalone, una volta abolito, "sarà sostituito da provvedimenti che in tempi graduali facciano fronte all'aumento demografico della popolazione, ferma restando la compatibilità con l'equilibrio del bilancio". Il "senza se e senza ma" non figura affatto nel programma elettorale ed è invece circondato da alcune condizioni che Prodi e Padoa-Schioppa stanno cercando ormai da sette mesi senza riuscire ad ottenere il gradimento della "lobby" sindacale e politica che ha perso la memoria di quanto aveva pattuito con Maroni nel 2004 e con tutti i partiti del centrosinistra nella stesura del programma del 2006.

3. Sia i sindacati che la sinistra politica hanno anche perso la memoria di uno dei punti essenziali della legge Dini sulle pensioni, che prevedeva la revisione dei coefficienti salario-pensione, da effettuarsi dopo dieci anni dall'entrata in vigore della legge. Fu approvata nel 1995 e quindi i coefficienti andavano rivisti nel 2005. Ma i sindacati ottennero dal solito Maroni di rinviare la revisione al 2006. Arrivata la scadenza, i sindacati hanno voluto un altro rinvio e comunque la revisione dei criteri di applicazione dei coefficienti. È stata insediata una commissione che deciderà entro l'anno in corso.

E.Scalfari, Rep. 8/7/07

mercoledì 11 luglio 2007

Insider trading raro in Italia. Ma è davvero così?

Solo due casi di condanna per insider trading in Italia nel 2006. Dieci casi «anomali» nell’inchiesta di M. Longo, Sole 11/7/07.

"La Consob inglese è stata la prima a lanciare l'allarme: in una fusione societaria su quattro è emerso il sospetto di insider trading. In America qualcuno parla addirittura di emergenza: il 41% delle acquisizioni annunciate in Borsa — secondo le stime di Measured Markets — ha evidenziato movimenti anomali delle azioni coinvolte nelle operazioni. E in Italia? La Consob — ha rivelato lunedì il presidente Lamberto Cardia — nel 2006 ha concluso 6 accertamenti su ipotetici casi di insider trading, formulando un'ipotesi di reato in due casi soltanto. Considerando che, secondo i dati di Thomson Financial, nel 2006 ci sono state in Italia 64 operazioni di fusione o di acquisizione di fette rilevanti di società quotate, non c'è che dire: sebbene il dato italiano sia poco confrontabile con quello estero, nel Paese dei "furbetti del quartierino" l'insider trading non sembra uno sport molto praticato.Ma è davvero così? Ci credono in pochi. «Il Sole-24 Ore» è andato a setacciare autonomamente le fusioni, le acquisizioni e gli eventi rilevanti del 2006 e del 2007, per verificare quante notizie inattese fossero state anticipate da rialzi o ribassi di Borsa. E — dopo un confronto con esperti di mercato e le stesse società coinvolte — ha selezionato una decina di casi in cui la Borsa ha profetizzato notizie future: si tratta probabilmente soltanto della punta dell'iceberg, visto che ogni anno i tecnici di Piazza Affari segnalano alla Consob decine o centinaia di casi in cui c'è il sospetto di insider trading. Eppure, per la Consob, i casi accertati si contano sulle dita di una mano: mercato "ligio" o carenza di organici per l'attività investigativa? L'ufficio della Consob che si occupa dell'insider trading ha raddoppiato gli ispettori negli ultimi due anni (ora sono in 20), per cui la risposta potrebbe essere la prima. Appare comunque strano che, senza sfere di cristallo, gli investitori di Piazza Affari prevedano il futuro meglio dei più famosi — ma forse meno ricchi — Nostradamus, Oracolo di Delfi e Sibilla Cumana.Sfere di cristallo in Borsa Nostradamus si è particolarmente impegnato venerdì 9 marzo 2007. Quel giorno il titolo Fastweb, che nelle sedute precedenti era stato abbastanza fiacco, s'illumina improvvisamente: senza particolari motivi vola infatti del 6,57% con volumi quadrupli rispetto alla media degli ultimi 2 anni. Gli operatori, durante la seduta, hanno cercato di capire perché: alcuni, intervistati dalle agenzie di stampa nel pomeriggio, hanno motivato quel rialzo improvviso con un report positivo di Morgan Stanley. Sta di fatto, però, che in tarda serata è arrivata una notizia inattesa ma ben più rilevante: l'Opa di Swisscom su Fastweb. Possibile che qualcuno abbia "annusato" l'Opa in anticipo? Impossibile saperlo. Neanche la società, contattata, ha saputo rispondere. Certo è che sul dossier lavoravano — tra banche e advisor — in tanti. Insomma: una fuga di notizie non è un'ipotesi così peregrina.Due mesi dopo Nostradamus si interessa di Marcolin. Il 22 maggio la Consob comunica che il fondo Lemanik Sicav è entrato nel capitale del gruppo con una quota del 2,34%, avvertendo che l'ingresso era avvenuto qualche giorno prima: il 17 maggio. Che questa sia una notizia in grado di muovere il titolo Marcolin lo dimostra il rialzo del 9,75% del 23 maggio, il giorno dopo l'annuncio ufficiale. Se il rialzo successivo è ovvio, appare quantomeno un po' più curioso che il titolo Marcolin abbia spiccato letteralmente il volo nei giorni precedenti al 17 maggio, appena prima che il fondo Lemanik Sicav entrasse nel capitale dell'azienda: in tre giorni, dal 14 al 16, Marcolin vola infatti del 26% a Piazza Affari con volumi 15 volte superiori alla media degli ultimi due anni. Neanche la società si è mai spiegata il motivo di quest'impennata: possibile che in parte sia dovuto agli stessi acquisti del fondo e alla consueta volatilità del titolo, ma — a detta di tutti gli esperti interpellati — il movimento resta anomalo.Altre "profezie" Molto difficile da valutare è un caso del 2006, quello di Autostrade. Il 21 aprile sul mercato si diffonde infatti la notizia — inaspettata — del tentativo di matrimonio con la spagnola Abertis. E nelle due settimane precedenti il titolo Autostrade era volato del 12,5% con volumi molto sopra la media. Su questo caso anche la Consob in quei giorni accese un "faro". L'indagine è stata però difficile: il 24 aprile, infatti, Autostrade aveva staccato il dividendo e questo normalmente (era accaduto anche nel 2005) aumenta i volumi in Borsa. L'istruttoria della Consob si è dunque scontrata su questo fattore "esterno", ma — secondo quanto risulta — ancora non l'ha archiviata.Beni Stabili, per tornare al 2007, è stato invece oggetto di "profezie" il 19 febbraio scorso. Quel giorno la società annuncia al mercato della fusione con Foncieres des Regions. L'accordo tra le parti — si legge oggi nel prospetto informativo — era stato raggiunto due giorni prima, cioè sabato 17 febbraio. E nessuno lo sapeva. Nessuno, ovviamente, tranne Nostradamus: il titolo Beni Stabili, infatti, nei giorni precedenti aveva spiccato il volo. Dal primo al 16 febbraio il titolo sale dell'8,2% con un Mibtel invariato e un indice settoriale (il Real Estate in cui Beni Stabili pesa per il 21%) in rialzo del 4,9%. Il balzo più deciso avviene tra il primo e il 7 febbraio: Beni Stabili +8,4% e indice Real Estate +3,4%. Forti, in quei giorni, anche i volumi. Motivo? Nessuno. Neanche la società stessa ha saputo spiegarlo. Insomma: Nostradamus ci ha azzeccato ancora.Meno eclatante, ma comunque degno di nota, anche il movimento di Marzotto. Il 17 aprile scorso (con il titolo sospeso in Borsa) Donà delle Rose annuncia il lancio di un'Opa a 3,99 euro per azione. Ma la "sfera di cristallo", per quella data, era già in azione: dal 4 al 16 aprile le azioni Marzotto, con alti e bassi, salgono dell'8,5%, anche se i volumi non sono di molto sopra la media.Le Cassandre Ma la "profezia" più incredibile quest'anno ha riguardato Innotech. Il 28 febbraio la Consob ha impugnato (al pari dell'anno prima) il bilancio della società. Nei giorni immediatamente successivi, quindi, il titolo ha inevitabilmente perso quota: -4,26% giovedì primo marzo, -1,40% venerdì e - 4,20% il lunedì successivo. Fin qui tutto ovvio. Meno scontato, invece, è il crollo precedente alla notizia (che era ignota) dell'impugnazione del bilancio: dal 19 febbraio al 27 febbraio il titolo scivola infatti del 10%, senza alcun apparente motivo. Non solo. Il ribasso più forte (-4,34%) avviene proprio il giorno prima della notizia negativa. Cosa può essere successo? La società stessa, contattata, non ha saputo rispondere: un portavoce ha fatto però notare che il titolo Innotech spesso si muove in modo bizzarro. Per esempio nelle settimane successive ha iniziato a volare, tanto che il 13 marzo la società ha diramato un comunicato dicendo «di non essere a conoscenza di fatti o circostanze tali da poter determinare i recenti rialzo del titolo in Borsa». Mistero.Il report che gioca d'anticipo A volte le profezie di Borsa non avvengono con sfere di cristallo, ma con più pratiche e-mail. Il caso di Banca Italease, nel gennaio del 2006, è emblematico. Il 23 gennaio Citigroup divulga un report sulla banca, firmato dall'analista Roberto Casoni, che consiglia di comprare azioni (buy). La Fsa, cioè la Consob inglese, ha però scoperto che dieci giorni prima, cioè il 12 gennaio, lo stesso Casoni aveva anticipato ad alcuni fondi l'imminente uscita del report che avrebbe potuto far salire il titolo Italease. Casoni è poi stato multato dalla Fsa. Ma l'aspetto interessante è il movimento del titolo Italease nelle quattro sedute precedenti alla diffusione dello studio di Citigroup: vola del 12% con scambi pari al 13% del flottante. Possibile che qualcuno abbia approfittato di quella mail? Saranno le Autorità a verificarlo.Una lotta difficile Tutti questi esempi hanno un comune denominatore: il sospetto che alcuni investitori abbiano tratto vantaggio da informazioni privilegiate. La Consob — osservando i regolamenti — non rivela se siano state aperte inchieste, come fanno al contrario altre authority estere. Ieri, per esempio, l'Amf (la Consob olandese) ha annunciato di aver aperto un'inchiesta per insider trading sull'operazione tra Danone e Numico. Sempre ieri, Nyse-Euronext ha ufficializzato un procedimento investigativo su Abn Amro per la stessa ragione. La Consob, in linea con la legge italiana, è molto più riservata. A prescindere dai procedimenti aperti, però, il reato di insider trading (a differenza dell'aggiotaggio) è molto difficile da provare. I casi di condanna, nell'arco degli ultimi dieci anni, si contano sulle dita di una mano. Dal 1996 al 2006 ci sono state tre o quattro sentenze di condanna, meno di dieci patteggiamenti e sei proscioglimenti anche per prescrizione."

Le opere di Kafka? Tutto merito di Generali

E’ quanto subdolamente vuol far credere il Corriere di oggi, a pag. 23, in una pagina dedicata a Generali che “conquista” i mercati dell’Est Europa. Invece di parlare a vanvera di Kafka si poteva forse utilizzare quella scheda per ricordare che fino a poco tempo fa Generali valeva il doppio dei concorrenti: oggi il valore di Borsa di Generali è di 41 miliardi, quello di Allianz di 76 miliardi. Nel 2002 Generali era la prima compagnia europea per capitalizzazione, poi si è fatta raggiungere, quindi superare e ora quasi doppiare. Nei primi sei mesi del 2007 ha perso ancora il 2,37%, mentre Axa (+3,16%) e Allianz (9,75%) sono ancora cresciute. A cosa servono i giornali: a informare o a sponsorizzare?

«La prima sede delle Generali a Praga è stata in piazza San Venceslao. Qui per un anno, dal primo ottobre 1907, ha lavorato Franz Kafka. Entrato appena laureato in legge, è stato prima impiegato poi funzionario. E proprio il capufficio, Eisner Eisner, suo primo maestro in materia assicurativa, lo ha incoraggiato alla letteratura: prima Kafka aveva scritto due racconti». Per fortuna c’era lui a dargli fiducia.

martedì 10 luglio 2007

Forza Italia dà 300mila euro al movimento di De Gregorio

«Forza Italia ha versato 300mila euro al movimento Italiani nel mondo, fondato nel settembre del 2006 dall’attuale presidente della commissione Difesa del Senato, Sergio De Gregorio. E’ quanto emerge dalla dichiarazione congiunta presentata alla Camera dei deputati».
Da una breve del Sole, pag. 12

Sergio De Gregorio è un senatore eletto con l’Italia dei valori di Di Pietro, passato poi alla Cdl.
In questi giorni è su tutti i giornali per essersi autoproclamato portavoce di Niccolò Pollari, ex capo del Sismi, accusato di aver creato un archivio di dossier su magistrati, politici e giornalisti «nemici» del governo Berlusconi.

lunedì 9 luglio 2007

Bidoni ai risparmiatori, 7 banche condannate in appello per SCI

Azioni-spazzatura scaricate dalle banche sul mercato: 7 istituti sono stati condannati in appello (a dieci anni di distanza dai fatti). Eppure il caso SCI non ha appassionato i mezzi di informazione. Ne ha parlato S. Elli, Sole 6/7/07 (anche se solo a pag. 39, in basso).


Cariplo-Intesa, Carige, Crt e Credito Italiano, Banca di Roma, Sanpaolo e Centrobanca. Sette banche (che dopo le fusioni si sono ridotte a quattro) sono state condannate in appello per le conseguenze di Borsa del crack della Sci, Società italiana costruzioni. A riaffermare una precedente sentenza del Tribunale di Milano è stata la seconda sezione della corte d'Appello, relatrice Vinicia Calendino. Opposti agli istituti di credito 15 investitori difesi dall'avvocato milanese Cino Raffa Ugolini. Confermato anche il risarcimento del danno di 200mila euro. Una somma non certo proporzionata rispetto ai rilievi mossi dai giudici sia di primo sia di secondo grado che si spingono ad avanzare l'ipotesi di manovre sui titoli basate su informazioni privilegiate (un'ipotesi già esaminata e archiviata dalla Procura di Milano). I fatti. La Sci, società allora quotata in Borsa e fondata dalla famiglia Romanengo, era gravata da tensioni finanziarie. Nel settembre del 1995 venne raggiunto un accordo tra la società e le banche. Punti cardine: il consolidamento del debito e la conversione del credito in azioni. Alla fine le sette banche raggiunsero in Sci una quota di controllo (78,1% del capitale) e sei di loro (tutte tranne Centrobanca) si riunirono in un comitato ristretto. Nel frattempo un advisor (la Vitale & Borghesi) venne incaricato di elaborare un piano di ristrutturazione e rilancio. Gli eventi cominciarono a precipitare il 10 giugno del 97 (allora il titolo valeva 14,5 lire) quando un dossier confidenziale della V&B successivo a un'offerta di acquisto da parte di una società americana (la Tamarix), informò le banche di perdite ulteriori per 30 miliardi di lire e ulteriori potenziali esborsi per 70-115 miliardi. La situazione venne discussa l'11 luglio nel corso di un comitato ristretto delle banche. Il 25 luglio l'intero Cda della Sci si dimise in polemica con la presa di posizione delle stesse banche che non accolsero la condizione dell'esclusiva posta dal cavaliere bianco per procedere all'acquisto. Paradossalmente il titolo a Piazza Affari cominciò a salire sino a raggiungere, ad agosto, le 30 lire con una capitalizzazione di Sci che raggiunse i 160 miliardi di lire. Ed è proprio in queste fasi che le banche cominciarono ad alleggerire i propri portafogli di azioni cedendole su un mercato ringalluzzito anche grazie a numerosi articoli di stampa che tendevano ad accreditare ipotesi (poi rivelatesi inconsistenti) di numerosi gruppi interessati all'acquisto di Sci. Tra questi i 15 investitori che si convinsero ad acquistare. In quella fase gli istituti i più attivi nel disfarsi dei titoli furono il Credito Italiano che ad aprile aveva l'8,66%, l'11 settembre il 4,59 e il 24 settembre lo 0,0% e il Sanpaolo che dal 7,92% di aprile a fine settembre era sceso allo 0,69%. Pressoché unanimi i commenti delle banche coinvolte: «Si tratta di una sentenza criticabile sotto il profilo del diritto. Riteniamo che sussistano gli elementi per ricorrere in Corte di Cassazione».

Niente soldi per le vittime di mafia

Il ministero dell’Economia fa sapere che non ci sono risorse sufficienti per equiparare le vittime di mafia a quelle per terrorismo. Più di duemila persone non potranno ricevere il vitalizio di 1033 euro mensili.
G. Bianconi, “Lo Stato Non ha soldi per le vittime di mafia”, Corr. 9/7/07

Intanto si è scoperto oggi che “le cosche della ‘ndrangheta imponevano alle imprese impegnate nei lavori della Salerno-ReggioCalabria di rivolgersi alle proprie aziende. L'opera di infiltrazione si affiancava alle estorsioni vere e proprie applicate alle imprese che avevano regolarmente vinto le varie gare di appalto: un giro di "bustarelle" che raggiungeva le decine di milioni di euro”.

http://www.repubblica.it/2007/07/sezioni/cronaca/ndrangheta-a3/ndrangheta-a3/ndrangheta-a3.html
“Le mani dei boss sull’autostrada”, G. Baldessaro, Rep. 10/7/07
“Per quei 10 chilometri bisogna prendere tre fornitori”, Ca.Ma., Corr. 10/7/07

domenica 8 luglio 2007

Costi della politica e sogni nel cassetto

La politica costa troppo, a volte in modo indecente. Il ministro per l’Attuazione del programma, Giulio Santagata, ha portato in consiglio dei ministri un piano severo di tagli. I colleghi ministri l’hanno sepolto di critiche: inutile demagogia, qui non si può toccare, le regioni no, province e comuni nemmeno, per non parlare dei consigli circoscrizionali e delle comunità montane. Non è mancato anche un po’ di gattopardismo: è troppo poco! Bisogna fare ben altro! E sulla linea del “benaltrismo” il piano non è stato nemmeno bocciato. E’ stato rinviato, per studiarlo meglio. Se ne parlerà al prossimo cdm e se non basta a quelli dopo ancora.
Ma ieri intanto nelle redazioni dei giornali è arrivato il progetto Santagata al gran completo. Via gli assessori di troppo, auto blu collettive, gettoni di presenza aboliti, indennità di missione tagliate, basta con i telefoni gratis. E poi ancora: meno consiglieri provinciali, stop al cumulo di incarichi per deputati, senatori e parlamentari europei, consigli di amministrazione pagati con i soldi pubblici ridotti all’osso e, per decenza, cancellazione delle comunità montane al livello del mare. Per i finanziamenti ci vorrà almeno una collina di 600m. Tutto quanto, ovviamente, in attesa di un’approvazione che si fatica a intravedere. Della serie: i sogni nel cassetto.

Da uno "spunto" del Corr., pag.8, 8/7/07

venerdì 6 luglio 2007

Sia fatta luce

La bolletta dell’elettricità costa in Italia il doppio che in Francia. In Europa, solo la Danimarca ha prezzi più alti. E nel 2006 sono saliti ancora: del 13,6%. Ma non è il caso di preoccuparsi: nei primi mesi del 2007 sono scesi dello 0,4%. Una percentuale di tutto rispetto. Sul costo del gas incide invece il monopolio dell’Eni che secondo il presidente dell’Authority per l’energia Ortis mette addirittura “a rischio la sicurezza degli approvvigionamenti” (come dimostrano i blackout) e “influenza in modo significativo i prezzi”.

Paolo Baroni ha analizzato le nostre bollette elettriche (“Luce, bolletta gonfiata”, Stampa 6/7/07, si guardino soprattutto i grafici nella seconda pagina) e ha raccolto i pareri di Ortis sul gas (“Gas, il dominio Eni pesa sui prezzi”, Stampa 6/7/07)

Alla Camera è tutto un magna magna

1.662.000 euro. E’ la cifra che spende ogni anno la Camera per la mensa. 28,5 euro per ogni pasto: ma ai deputati costa solo 9 euro.
Un netto miglioramento comunque rispetto agli oltre 5 milioni del 2006 (ben 90 euro a pasto). Il risparmio è dovuto all’affidamento all’esterno del servizio. L’esperimento durerà un anno e mezzo: se i deputati non saranno soddisfatti della cucina potranno tornare al vecchio regime (da 90 euro). I cuochi che temporaneamente verranno spostati ai centralini della Camera potranno però rimettersi dietro i fornelli.

"I deputati si regalano il ristorante", C. Lopapa, Rep. 6/7/07

Ministro australiano: “In Iraq per il petrolio”

«Proteggere le linee di rifornimento del greggio è una delle ragioni per mantenere le truppe in Iraq». E’ il ministro della Difesa australiano, Brendan Nelson, ad avvalorare dagli schermi della tv Abc l’accusa sollevata dal movimento anti-guerra contro l’intervento in Iraq. «Uno dei motivi della necessità di avere i soldati in Iraq è la sicurezza energetica, l’interesse dell’Australia è di lasciare il Medio Oriente, e l’Iraq in particolare, solo quando vi sarà una condizione di stabilità» ha detto Nelson, invitando chi chiede il ritiro a «pensare cosa potrebbe avvenire in caso di una prematura fuoriuscita dei soldati». È la prima volta che un ministro di uno dei Paesi che compongono la forza multinazionale - presente in Iraq su mandato dell’Onu - traccia un collegamento diretto fra presenza militare e petrolio.

M. Molinari, La Stampa 6/7/07

Profumo, le banche e l’informazione sul crack Parmalat

Unicredit ha recuperato il 124% di quanto aveva investito in Parmalat. Ha ricevuto cioè il 24% in più di quanto aveva dato. Al contrario di migliaia di clienti che dovranno accontentarsi degli spiccioli, o di nulla. E’ andata bene a quasi tutte le banche, non solo a Unicredit: in media hanno riportato indietro il 93% delle somme impiegate. Grazie a 4 fattori: l’andamento del titolo in Borsa, i recovery ratio, le commissioni, i credit default swap. Queste cose le ha scritte Giuseppe Oddo del Sole, riprendendo un documento che il commissario straordinario Bondi ha inviato al Tribunale di Milano. Ieri Profumo, ad di Unicredit, ha detto che «un giornale serio non avrebbe pubblicato quella pagina. Affermare che se si ricevono degli interessi a fronte di un'esposizione si ha un recupero, è tecnicamente sbagliato». Non è vero: Bondi (non Oddo) ha fatto il conto delle entrate e delle uscite (quello che interessa migliaia di investitori), e non si vede perché gli interessi incassati non debbano far parte delle entrate. Si possono fare altri tipi di conteggi: ma se si fa quello delle entrate e delle uscite, Bondi ha ragione.
Ora, il Sole può essere serio o meno. Il problema è che l’articolo di Oddo era valido, documentato e interessava migliaia di persone (al contrario delle mille pagine per la 500).
Se Profumo, l’uomo più potente d’Italia, lascia queste dichiarazioni, c’è da preoccuparsi. Cosa sarà della prossima inchiesta sulle banche? I giornali, già timidi di loro, si lasceranno condizionare? E soprattutto: i lettori potranno essere correttamente informati?


"Parmalat, le banche incassano" di Giuseppe Oddo, Sole 5/7/07

Le grandi banche sono uscite indenni dal dissesto della Parmalat. Anzi, per alcune di esse il crack è stato un lauto affare. Se i principali istituti che avevano finanziato Calisto Tanzi hanno mediamente portato a casa il 93% della loro esposizione verso Parmalat, per alcuni di essi l'incasso ha abbondantemente superato il 100% del credito.Questi dati figurano in una tabella che il commissario straordinario, Enrico Bondi, ha spedito di recente al Tribunale di Milano. La tabella - che pubblichiamo in basso e che integra la relazione sulle cause dell'insolvenza - è un confronto tra i crediti delle banche così come apparivano nel giorno del default e gli importi da esse recuperati nel corso degli anni; importi comprensivi dei proventi percepiti prima del crack, dei "collaterali" incassati al default e del valore delle azioni Parmalat ottenute con la conversione dei crediti. Il risultato di questi calcoli è sconvolgente. Ed è destinato a sollevare nuove polemiche tra il popolo dei bondholders.Prendiamo il caso di Deutsche Bank: l'istituto tedesco, che il 27 dicembre 2003, alla dichiarazione d'insolvenza della Parmalat, aveva crediti per più di 154 milioni di euro, è uscito dal gruppo con quasi 217 milioni: il 40% in più del credito originario. Deutsche Bank aveva curato parecchi prestiti obbligazionari di Collecchio, tra cui l'emissione "fantasma" del 13 settembre 2003, cosiddetta perché annunciata e annullata nello stesso giorno; e aveva lasciato correre le indiscrezioni di Borsa che le attribuivano, a pochi mesi dal crack, il 5% della Parmalat, con l'effetto di rassicurare gli investitori mentre l'azienda camminava sull'orlo del baratro. La Parmalat è stata un affare anche per UniCredit e Capitalia, che oggi costituiscono un'unica entità aziendale: le due banche hanno recuperato dalla Parmalat, nell'ordine, il 124% e il 123% dei rispettivi crediti, vale a dire 212 milioni e 533 milioni. Il Monte dei Paschi e l'Ubs sono invece usciti alla pari: il primo ha recuperato il 102% del credito (113 milioni contro i 110 del default) e il secondo il 99% (451 contro 455).Ma perché i crediti delle banche sono aumentati di valore? Per almeno quattro motivi. Primo, perché le quotazioni di Borsa della Parmalat sono passate da 1 a 3 euro per il buon andamento economico della società, ma soprattutto per le aspettative sulle revocatorie e sulle cause per danni intentate da Bondi negli Stati Uniti. Secondo, perché i recovery ratio, i criteri di conversione adottati dalla procedura per la trasformazione dei crediti in azioni, hanno penalizzato certi creditori e ne hanno favorito altri. Alla Eurolat, per esempio, era associato un recovery ratio del 100%, tale per cui ogni suo creditore ha ricevuto, all'atto del concordato, una quota di azioni Parmalat pari all'intero ammontare del credito. È questo il caso di Capitalia, uscita proprio nei giorni scorsi dal capitale della Parmalat con un notevole guadagno. È questo anche il caso di alcuni fornitori di latte di Collecchio, che hanno visto triplicare il loro credito. Una cosa mai vista. Il terzo motivo che ha fatto lievitare i crediti delle banche risiede nelle commissioni e nei proventi vari strappati alla Parmalat nel corso degli anni. Dei 14,1 miliardi di risorse finanzarie assorbite dal gruppo nei cinque anni prima del crack - scrive il commissario governativo nella sua relazione sull'insolvenza - 13,2 miliardi erano stati procurati, in maniera diretta o indiretta, dal sistema bancario italiano e internazionale, e una parte assai consistente di queste risorse, 5,3 miliardi, se n'era andata in oneri finanziari e commissioni sul debito. In particolare, 2,8 miliardi erano finiti alle banche e 2,5 erano serviti a remunerare le obbligazioni. Conclusione: la Parmalat è stata una mucca da mungere. Tra proventi e commissioni percepiti negli annni prima del default, UniCredit ha incassato in totale quasi 107 milioni di euro, Capitalia 267, Sanpaolo-Imi 104 e Citibank 182.Quarto motivo: le banche avevano assicurato i propri crediti. Ubs, Citibank, Deutsche Bank, Bank Of America, Crédit Suisse avevano stipulato dei credit default swap, il più diffuso tra i contratti derivati di credito, che permette di comprare o vendere protezione contro il rischio d'insolvenza di un emittente di obbligazioni. Si presume che i credit defaul swap liquidati sul mercato internazionale all'atto dell'insolvenza della Parmalat ammontassero a 7 miliardi di euro: una cifra spaventosa. Diciamo si presume, perché era stata fatta richiesta, a tutte le autorità del mondo, dei tabulati di scambio di questi contratti derivati; richiesta caduta nel vuoto. Parallelamente altre banche avevano costituito dei cash collateral, ossia garazie in denaro versate dalla Parmalat, che la banca avrebbe escusso in caso di default. E così è stato per Bank of America, che la notte del 23 dicembre 2003 ha incassato puntualmente 148,1 milioni di euro di cash collateral che erano stati costituiti in precedenza dalla Parmalat: operazione ritenuta legittima dalla banca creditrice, ma condannata dai magistrati e dallo stesso Bondi come esempio di condotta delittuosa.Peraltro, tra gli incassi di Bank of America Bondi ha conteggiato, anche, gli oltre 50 milioni distratti da Luca Sala e ritrovati su alcuni conti esteri del manager in servizio presso la consociata italiana di BofA.La banca che sta peggio in assoluto, tra le undici esaminate da Bondi, è JP Morgan Chase, tuttora azionista di Parmalat accanto a Intesa e Sanpaolo-Imi. Di recente JP Morgan ha accresciuto la partecipazione al 4,7%, anche se può contare, in questo momento, su un recupero potenziale pari al 42% del suo credito.Oggi più che mai si può sostenere che i danneggiati del crack furono le decine di migliaia di clienti bancari che sottoscrissero i bond Parmalat agli sportelli e che svendettero i titoli nel momento del panico, precludendosi la partecipazione al concordato. Sono stimati in 162mila gli ex obbligazionisti oggi azionisti della nuova Parmalat. Questi risparmiatori potranno sperare in un recupero sostanziale del loro credito se Bondi uscirà vittorioso dalle azioni revocatorie e risarciatorie avviate contro banche e società di revisione, per svariati miliardi di euro. Gli altri hanno perso tutto, irrimediabilmente.

giovedì 5 luglio 2007

Così funzionavano i derivati Italease. Le banche ringraziano, i clienti pagano

"Pensava di aver fatto un semplice leasing, si è ritrovato in mano una sorta di bomba a orologeria. Mario Rossi (così lo chiameremo) è uno dei 2.200 clienti di Italease rimasti invischiati nella farsa (beffa?) dello scandalo derivati che ha visto protagonista la banca milanese guidata, sino al 4 giugno scorso, dall'ex a.d. Massimo Faenza.Il signor Rossi, imprenditore del Nord, insieme a un leasing per un capannone da poco meno di 4 milioni di euro, ha firmato un derivato da 5 milioni che scade tra 4 anni (il cui contratto qui riproduciamo).Lui pensava, e il contratto così recita, di aver sottoscritto un semplice Irs: cioè una sorta di protezione contro il rialzo dei tassi futuri e quindi sulla stabilità della rata di interessi che avrebbe dovuto sborsare. Ma quella protezione era (ed è) assolutamente fittizia e il derivato- beffa non è un semplice Irs, ma uno strutturato complesso che cela un pericolo devastante. Quale? Se i tassi di mercato saliranno anche solo per poco tempo sopra il 5,25% da qui al 2011, il signor Rossi rischia perdite esponenziali per svariati milioni di euro. Come è possibile? Semplice, o meglio, complicato. Nella determinazione del tasso variabile che Rossi paga a Italease ogni tre mesi c'è l'amara sorpresa. Lo spread che si paga ha applicato un moltiplicatore di 3 volte sui tassi a breve. Se i tassi rompono la barriera di 5,25%, ogni centesimo in più viene pagato dal cliente con una leva moltiplicata per tre e per ogni trimestre. E quello spread si memorizza cumulandosi ai trimestri successivi. Non solo. Cosa analoga avverrà (spread cumulato moltiplicato per tre volte) se i tassi scenderanno sotto il 2,25% nel corso dei prossimi anni. Quindi la copertura reale avviene solo in un ristretto corridoio con i tassi compresi tra il 2,25% e il 5,25%. Al di là di queste barriere, Rossi comincia a pagare. E salato. Altro che protezione, altro che semplici plain vanilla. Quello che Italease ha venduto al signor Rossi era un "derivato con sorpresa", con quella fascia (sopra il 5,25% e sotto il 2,25% dell'Euribor a tre mesi) protetta e con il rischio moltiplicato per tre volte tutto a carico del cliente se il corridoio dovesse essere infranto.Va detto che il signor Rossi forse si è fatto ingolosire da quel primo anno di vita (il 2006) in cui poteva solo guadagnare, dato che incassava almeno il 4,2% pagando a Italease solo l'Euribor a tre mesi. Ma quello "sticky floater" o "collar" (così lo denominano gli ingegneri finanziari) funzionava un po' come prodotto-civetta, garantendo guadagni e capitale al sicuro in condizioni normali di mercato e scaricando sul sottoscrittore rischi di perdite esponenziali in situazione "estreme".
E definire estrema l'ipotesi, invece assai concreta, del superamento della soglia del 5,25% dei tassi a breve da qui al 2011 appare fuorviante. Un prodotto così congegnato, con quel virus letale incorporato, non poteva che andare in perdita. Fu Italease a segnalare al nostro imprenditore che a fine 2006 (solo sei mesi dopo la stipula del contratto) il valore di mercato era in rosso per 20mila euro. Poi, a fine giugno 2007, la perdita era salita a ben 230mila euro. Che il derivato-beffa di Rossi non sia un'eccezione, ma la norma lo dimostra l'escalation negativa del monte derivati di Italease che, da un valore di mercato in perdita per poco più di 200 milioni a fine 2006 è lievitato fino a 730 milioni in sei mesi. Soldi che Italease ha sborsato (finora per un costo di 610 milioni) per chiudere i contratti. E chi ha incassato? Le sette banche d'affari che hanno confezionato i derivati-beffa. Prima a incassare era stata la stessa Italease. Dal collocamento di questi prodotti Faenza aveva raccolto 144 milioni (un terzo dei ricavi della banca) solo nel 2006. Ora restano sul campo solo macerie".

S. Elli e F. Pavesi, Sole 5/7/07