sabato 22 dicembre 2007

Il Paese dove i potenti vanno in galera

di A. Stille, Rep. 21/12/07

La condanna a 23 mesi di carcere inflitta negli Usa a Michael Vick, uno dei massimi campioni di football americano, per aver organizzato combattimenti illegali tra cani è dimostrazione di un`importante realtà della giustizia americana: i potenti vanno in galera. Si può discutere sul caso specifico, cioè se sia giusta o meno una condanna a due annidi carcere per maltrattamenti ad animali, e il sistemagiudiziario americano che attualmente tiene dietro le sbarre quasi 2,25 milioni di persone è ampiamente criticabile, ma possiede alcune virtù che altri paesi, e l`Italia in particolare, farebbero bene a tener presenti: la giustizia è rapida e si infliggono pene severe ai ricchi e ai potenti. Ecco qualche esempio recente.

Il governatore del Connecticut John Rowland, potente repubblicano di profilo nazionale, fu costretto alle dimissioni nel 2004 per aver accettato che una ditta eseguisse gratuitamente lavori di ristrutturazione nella sua casa di vacanza. Nel marzo 2005, imputato di corruzione, fu condannato ad un anno e un giorno di carcere. Entrò in cella due settimane dopo e scontò nove mesi.

Il governatore dell`Illinois, George Ryan, anch`egli potente repubblicano, fu costretto a lasciare l`incarico e finì in tribunale alla fine del 2005 per degli appalti concessi a persone amiche ottenendo in cambio doni e vacanze pagate. Condannato nell`aprile 2006, ha iniziato a scontare la pena di sei anni e mezzo di detenzione nel novembre 2007, esauriti i gradi di giudizio. Jeffrey Skilling, amministratore delegato della Enron, la società energetica texanache fu trai maggiori finanziatori della campagna elettorale del presidente George Bush, ha iniziato a scontare lo scorso anno una condanna a 24 anni di prigione.

Skilling, oggi cinquantaquattrenne, potrebbe quindi passare il resto della vita in carcere per il ruolo avuto nella gestione truffaldina della Enron. L`ex direttore finanziario della società è stato condannato a sei anni nonostante le riduzioni di pena ottenute grazie alla sua testimonianza al processo.

Randall Cunningham, congressman repubblicano sessantaquattrenne, è stato condannato a otto anni e quattro mesi per tangenti ed evasione fiscale.

Ha iniziato a scontare la pena entro un anno dalle sue dimissioni dal Congresso. Toni Delay, potentissimo capogruppo repubblicano alla Camera, è stato costretto alle dimissioni per uno scandalo di fondi neri. Secondo l`accusa avrebbe fatto uso illegittimo di fondi elettorali in Texas. Benché finora non sia stato condannato per alcun reato, la dirigenza repubblicana lo ha invitato a lasciare il seggio in parlamento fino alla conclusione dell`iter giudiziario.

Tutti questi casi sono di utile insegnamento. Dimostrano che violare la fiducia pubblica è una cosa seria. La magistratura è stata rapida e inflessibile, nonostante il notevole peso politico degli imputati. Tutti appartengono al partito al potere e questo significa che né George Bush né il congresso repubblicano sono intervenuti o avevano il potere di impedire che la giustizia facesse il suo corso. Non voglio dire con questo che la corruzione è endemica nel partito repubblicano.

In realtà negli anni `90, quando era presidente Bill Clinton, un`ondata di casi simili coinvolse i democratici, proprio perché la gestione del potere crea maggiori occasioni di corruzione.

Ma in entrambi i casi, i pubblici ministeri federali competenti, pur dipendendo da funzionari a nomina politica, hanno considerato loro dovere mandare in prigione i trasgressori, compagni di partito inclusi.

Alcuni imputati hanno cercato di dipingersi come vittime della stampa o dei pubblici ministeri locali di diverso orientamento politico, ma una volta emerse le prove inequivocabili dei reati commessi, sono stati abbandonati dai compagni di partito. Nel sistema americano i pubblici ministeri sono più apertamente politicizzati rispetto all`Italia. I reati federali rientrano nella competenza dei procuratori degli Stati Uniti, designati dall`esecutivo a Washington. I reati locali sono di competenza dei procuratori distrettuali, funzionari eletti, di orientamento partitico dichiarato.I fini politici possono essere contestabili a livello individuale, ma ciò che conta sono i fatti. Se un pubblico ministero produce prove certe di un illecito, nessuno, neppure i più stretti alleati politici dell`imputato, può permettersi di ignorarle, indipendentemente dalla fonte da cui provengono.

Quando il governatore del Connecticut Rowland, in generale molto stimato, fu costretto ad ammettere di aver beneficiato gratuitamente di costosi interventi di ristrutturazione della sua casa sul lago, undici dei quindici membri repubblicani del Senato del Connecticut hanno chiesto le sue dimissioni. «Ha perso la fiducia della gente», così Christopher Shays, membro del Senato del Connecticut, spiega il motivo per cui Rowland, suo intimo amico e alleato, ha dovuto lasciare l`incarico, pur avendo in seguito regolarmente saldato i lavori eseguiti nella sua proprietà.

Al di là del generale consenso politico esistente negli Usa sul fatto che l`illegalità, in qualunque ambito, è inaccettabile, anche l`atteggiamento degliimputati qui in America è diverso. Il governatore Rowland, inizialmente si è scagliato contro i suoi accusatori, ma alla fine si è espresso sulla sua vicenda giudiziaria in termini che indicano consapevolezza delle proprie colpe. Scarcerato, Rowland ha ammesso di essersi fatto prendere la mano dall`arroganza del potere.

«Nella mia carriera di politico ho incontrato moltissime persone pronte a incensarti quando sei in posizione di potere. Finisci per credere a quello che dicono i comunicati stampa del tuo ufficio, ti senti al centro di tutto, e inizi a rimuovere il resto». La differenza con l`Italia è, in tutta franchezza, molto forte. In Italia gli imputati finiscono in cella, talvolta a torto, prima di essere condannati per un qualsiasi reato, ma in pratica non vanno mai in prigione dopo la condanna, per lo meno se sono ricchi e potenti.

Le cause si trascinano per annie le condanne non comportano conseguenze fino all`esaurimento di tutti i gradi di giudizio, un iter che richiede spesso più di un decennio. Se gli imputati siedono in Parlamento vi restano fino all`ultimissimo momento senza ricevere alcun invito a dimettersi.

Anche dopo una condannale conseguenze sono minime, ammorbidite da leggi ad personam o da amnistie, così che il "potente di turno" al massimo trascorre qualche mese agli arresti domiciliari nella lussuosa dimora acquistata con i frutti del suo operato corrotto.

E nonostante le condanne, montagne di prove e sentenze mitissime, nelle interviste questi signori si dipingono come vittime innocenti e si scagliano contro chi ha osato svelare le loro malefatte.

La cosa forse peggiore è che in Italia gli elementi oggettivi paiono contare pochissimo rispetto alle fonti che li producono. Così come nell`attuale caso Rai-BerlusconiSaccà-nessuno contesta la veridicità delle intercettazioni telefoniche del dirigente Rai Agostino Saccà e quasi nessuno parla del quadro agghiacciante del- la gestione di potere in Italia ma vengono respinte perché vengono dalla cosiddetta "armata rossa della magistratura" e perché sono state pubblicate da Repubblica.

Forse l`aspetto più importante della realtà americana, portata qui ad esempio, è che negli Usa esistono delle istituzioni, come i tribunali e la stampa, che, indipendentemente dal colore politico, operano in autonomia, producendo elementi oggettivi da tenere necessariamente in considerazione, nel bene e nel male. A ragione o a torto, quando un sito web conservatore pubblicò le prove della relazione del Presidente Clinton con Monica Lewinsky, immediatamente perse importanza la fonte della rivelazione, importante era stabilirne l`autenticità. Lo stesso accadde quando un altro sito pubblicò le prove che Rudolph Giuliani aveva messo la sua amante, diventata poi sua moglie, sotto la protezione della polizia a spese dei contribuenti.

Quando la veridicità dell`informazione fu confermata, Giuliani fu costretto a scusarsi e a fornire spiegazioni.

Può essere legittimo rifiutarsi di adottare il moralismo americano, ma il rispetto della legalità, la rapidità dei procedimenti giudiziarie il principio di comminare ai potenti pene severe come mezzo per scoraggiare l`abuso di potere, sono realtà che è bene tenere in considerazione.

Traduzione di Emilia Benghi [.]

giovedì 13 dicembre 2007

La Scala condannata per morte da amianto di un dipendente

La Scala dovra' versare oltre 200mila euro a Francesca Boaretto, vedova di Enzo, il 56enne addetto al sipario del teatro, morto a causa delle inalazioni di amianto dovute allo scuotimento della 'pattona', il sipario antiacustico e antincendio, tolto con la ristrutturazione dell'edificio avvenuta negli anni scorsi. Mantovani ha lavorato alle dipendenze della Scala dal 1971 al 1997 come meccanico ed elettricista di palcoscenico e il suo compito era alzare e abbassare, sia durante le prove che negli spettacoli, quel sipario alto 12 metri e largo 17, costituito da due teli di amianto. Una manovra che causava la dispersione di polveri e fibre che hanno provocato nel 1999 l'insorgere della tipica patologia dovuta a esposizione da amianto, il mesotelioma pleurico, e poi la sua morte, il 21 agosto 2000. Due anni dopo, gli avvocati della sua famiglia, Alessandro e Aldo Garlatti, hanno presentato un esposto al Tribunale del Lavoro, chiedendo che venisse accertata la responsabilita' civile del teatro.
Quest'ultimo si e' difeso chiedendo di estendere il contraddittorio del processo alla Pirelli, presso la quale Mantovani aveva lavorato per qualche tempo. Ma le testimonianze dei colleghi dell'uomo e la consulenza medico - legale hanno portato al riconoscimento della responsabilita' della Scala che, in quanto datore di lavoro, fanno notare gli avvocati, "avrebbe dovuto proteggere l'integrita' del suo lavoratore secondo i principi della tecnologia piu' avanzata in base all'art. 2087 del codice civile". (AGI)

domenica 9 dicembre 2007

Verso quota mille

La prima pagina dell'Unità di oggi ricorda 55 dei 984 morti sul lavoro quest'anno.

sabato 17 novembre 2007

Le "innamorate" di Marquez censurate in Iran

I primi lettori iraniani, ritrovandosi fra le mani l' ultimo romanzo di Gabriel García Márquez, Memoria delle mie puttane tristi, non devono aver creduto ai propri occhi. Proprio là, a Teheran e Qom, sotto l' ala puritana dei mullah, si vendeva in lingua farsi l' opera trasgressiva del grande Gabo (nella foto), dove si racconta l' amore di un assatanato novantenne per una «adolescente vergine» di 14 anni. Unica prudenza: la sostituzione del termine «puttane» con il più casto «innamorate». Ovvio che le cinquemila copie della tiratura siano andate a ruba, e altrettanto scontato che dopo tre settimane il regime se ne sia accorto. Risultato: vietato ristampare il romanzo e licenziamento immediato dell' incauto funzionario editoriale. Con tante scuse del ministero della Cultura per «l' errore burocratico». Troppo tardi, tuttavia, per evitare che la favola metropolitana si diffondesse fulminea fra intellettuali e studenti: gli stessi che a suo tempo, per aggirare la censura contro il celebre Cent' anni di solitudine si erano affrettati a comperarne tutte le copie disponibili al mercato nero. Ma si sa, niente come le dittature riesce a trasformare i più innocui romanzi in aneliti irresistibili di libertà.

D. Fertilio, Corr. 16/11/07

«Mafia, lo Stato ci discrimina»

«Dopo tante promesse, l' ennesima mortificazione, lo Stato ci discrimina». Così alcuni familiari di vittime della mafia hanno protestato ieri a Palermo per la mancata approvazione di un emendamento della Finanziaria che equipara le vittime di Cosa nostra e quelle di terrorismo. Tra loro Sonia Alfano, figlia di Beppe, giornalista ucciso l' 8 gennaio ' 93.

Quello che non si doveva dire su Enzo Biagi

Triste il Paese che ha bisogno di comici.

http://www.la7.it/intrattenimento/dettaglio.asp?prop=decameron&video=5633

giovedì 15 novembre 2007

Telecom, ritardo su scelta vertici distrugge valore

di Mathias Wildt

MILANO (Reuters) - Il ritardo dei nuovi azionisti di controllo di Telecom Italia nella scelta del management sta colpendo la capitalizzazione del titolo e il morale dell'azienda.

Lo sostengono alcuni analisti e investitori interpellati da Reuters, mentre continua l'attesa circa la possibile sostituzione degli AD e presidente, Riccardo Ruggiero e Pasquale Pistorio.

Telefonica, Intesa Sanpaolo, Generali, Mediobanca e la famiglia Benetton hanno concluso lo scorso aprile l'accordo con Olimpia per il passaggio del controllo della tlc alla holding Telco. Il closing dell'operazione è avvenuto il 25 ottobre dopo l'ok condizionato dell'antitrust brasiliano circa il ruolo di Telefonica.

"Non è un avvio propizio" commenta Robert Grindle, analista di Dresdner Kleinwort. "Non aiuta né il morale del gruppo, né gli azionisti".

Il titolo Telecom ha perso il 6% dall'inizio dell'anno, a fronte del +41% di Telefonica, +22% di France Telecom e +6% di Deutsche Telekom, nonostante i margini della società italiana siano più ampi delle rivali francese e tedesca.

"I nuovi azionisti hanno distrutto valore" dice Alessandro Frigerio, fund manager di Rmj.

Secondo il gestore ha avuto un ruolo anche il conflitto tra i colossi bancari Intesa Sanpaolo e Unicredit, che non è azionista ma possiede temporaneamente il 18% di Mediobanca.

"In Telecom abbiamo uno scontro frontale tra Unicredit e Intesa" afferma Frigerio. "Mediobanca e Generali non possono approvare un AD di Telecom Italia che non sia approvato da Profumo".

Per mesi sui media è stata aggiornata una lista di potenziali candidati che vede in prima fila per il ruolo di AD l'ex AD di Eni e presidente della stessa Telecom Franco Bernabè, per quello di presidente l'ex presidente di Mediobanca Gabriele Galateri di Genola.

Secondo il quotidiano Finanza e Mercati, se lo stallo perdurasse Generali sarebbe pronta a vendere a Telefonica la propria partecipazione.

L'AD della società spagnola, Cesar Alierta, fa parte del board di Telecom in rappresentanza del 10% indirettamente in mano al suo gruppo che secondo gli analisti sarebbe orientato ad ampliare.

"Un consorzio di azionisti non è una buona ricetta per un processo decisionale rapido" conclude Grindle. "Speriamo che questo non sia un modello per il futuro".

martedì 13 novembre 2007

Indagato Landolfi, presidente vigilanza Rai

MONDRAGONE (Caserta) - Nell’inchiesta Eco4, che ieri ha portato a sei nuovi arresti e nella quale sono coinvolte 19 persone, tra cui il sindaco di Mondragone Ugo Alfredo Conte (la richiesta di arresto è stata rigettata dal gip), è indagato anche Mario Landolfi, parlamentare di An, ex ministro delle Comunicazioni, coordinatore regionale del partito ed attuale presidente della commissione di vigilanza Rai, nativo e residente del comune casertano. Secondo le accuse, Landolfi - in accordo con il sindaco Conte, il presidente del consorzio intercomunale Ce4 (di cui l’Eco4 è il braccio operativo per la raccolta e smaltimento rifiuti) Giuseppe Valente, i fratelli Sergio e Michele Orsi (ritenuti amministratori “di fatto” dell’Eco4) – avrebbe avallato le dimissioni di un consigliere comunale, Massimo Romano, al quale sarebbe stato promesso in cambio un posto di lavoro nella Eco4 per la moglie e il fratello poliziotto. I reati ipotizzati dalla Dda sono di concorso in corruzione e truffa aggravata dal favoreggiamento camorristico. L’inchiesta è partita alcuni anni fa e riguarda i rapporti tra politica, imprenditoria e camorra nell’ambito dell’affaire per lo smaltimento rifiuti a Mondragone e in provincia di Caserta, poiché il consorzio Ce4 raggruppa 18 comuni dell’area. La prima ordinanza, emessa nell’aprile scorso, aveva portato all’arresto di Valente (domiciliari), dei fratelli Orsi e di esponenti del clan La Torre/Fragnoli già detenuti.

da pupia.tv

domenica 4 novembre 2007

Il romanzo è il ponte tra le civiltà

di Amos Oz

Se acquistate un biglietto per viaggiare in altri Paesi, andrete ad ammirare i monumenti, i palazzi e le piazze, i musei, i paesaggi e i siti storici. Se siete fortunati, avrete forse l' occasione di scambiare anche quattro parole con la gente del posto. Poi farete ritorno a casa, portandovi dietro una manciata di fotografie e cartoline. Ma se leggete un romanzo, sarà come comprare un biglietto che vi condurrà nei recessi più intimi di un' altra terra e di un altro popolo. Leggere un romanzo straniero è un invito a visitare la casa di altre persone e i luoghi privati di un' altra realtà. Se siete solo un turista, potreste soffermarvi lungo una strada per osservare una vecchia casa, nella città vecchia, e scorgere forse una donna che guarda dalla finestra. Poi vi girate e vi allontanate. Se siete un lettore, vedrete anche voi quella donna che guarda dalla finestra, ma sarete accanto a lei, in quella stanza, nei suoi pensieri. Se leggete un romanzo straniero, sarete realmente invitati nei salotti di altre persone, nei loro uffici e nelle loro scuole, fin nelle loro stanze da letto. Sarete invitati a condividere le loro tristezze segrete, i momenti di gioia in famiglia, i loro sogni. È per questo che io credo che la letteratura sia un ponte gettato tra i popoli. Sono convinto che la curiosità può essere una virtù morale. Sono convinto che immaginare l' altro può essere un antidoto al fanatismo. Immaginare l' altro farà di voi non solo uomini migliori nel lavoro o nell' amore, ma vi trasformerà in esseri umani migliori. La tragedia tra Ebrei e Arabi consiste in parte nell' incapacità di così tanti di noi, Ebrei e Arabi, di immaginare l' altro. Immaginare l' altro realmente: negli amori, nelle paure tremende, nella rabbia, nella passione. Tra noi prevale l' ostilità, scarseggia invece la curiosità. Ebrei e Arabi hanno qualcosa di essenziale in comune: in passato sia gli uni che gli altri sono stati trattati, con disprezzo e brutalità, dalla mano violenta dell' Europa. Gli Arabi attraverso l' imperialismo, il colonialismo, lo sfruttamento e le umiliazioni. Gli Ebrei attraverso la discriminazione, le persecuzioni, le espulsioni e infine lo sterminio di massa. Si potrebbe pensare che due vittime, specie due vittime del medesimo oppressore, avrebbero sviluppato tra di loro un senso di solidarietà. Ahimè, non funziona così, né nei romanzi né nella vita. I peggiori conflitti infatti si scatenano spesso tra le vittime dello stesso oppressore: i figli di un genitore violento non provano necessariamente simpatia l' uno per l' altro. Anzi, spesso vedono nell' altro il riflesso del loro carnefice. Ed è proprio così tra Ebrei e Arabi in Medio Oriente. Mentre gli Arabi considerano gli Israeliani gli ultimi crociati, un' estensione dell' Europa bianca e colonizzatrice, molti Israeliani, da parte loro, vedono negli Arabi la nuova incarnazione dei loro antichi oppressori, incitatori di pogrom e nazisti. Questa situazione fa ricadere sull' Europa una speciale responsabilità per la soluzione del conflitto arabo-israeliano: anziché rimproverare e ammonire ora questi, ora quelli, gli europei dovrebbero estendere solidarietà, comprensione e aiuti agli uni e agli altri. Non occorre più scegliere se essere a favore di Israele o a favore della Palestina: è necessario essere a favore della Pace. Forse la donna alla finestra è una palestinese di Nablus. Forse un' ebrea israeliana di Tel Aviv. Se volete aiutare a ristabilire la pace tra queste due donne alle finestre, fareste meglio a informarvi su di loro. Leggete i romanzi, cari amici, vi insegneranno molte cose. È giunto il momento che persino ciascuna di queste due donne si informi meglio sull' altra. Per imparare, infine, che cos' è che riempie l' altra donna alla finestra di paura, rabbia, speranza. Certo non intendo affermare che la lettura dei romanzi può cambiare il mondo. Ma suggerisco, e ne sono fermamente convinto, che la lettura dei romanzi è uno dei modi migliori per capire che tutte le donne, a tutte le finestre, con ansia e trepidazione, non aspettano altro che la pace.

mercoledì 24 ottobre 2007

La pugnalata a de Magistris

La «pugnalata alle spalle», come il pm Luigi de Magistris ha definito l' avocazione dell' inchiesta «Why not» a opera del procuratore generale reggente Dolcino Favi, è una ferita della profondità di quattro paginette svolazzanti, compresa quella di trasmissione da un magistrato all' altro. Ed è stata una pugnalata, come vedremo più avanti, decisa, comunicata e inferta in un giorno solo, venerdì 19 ottobre. Con la velocità e la determinazione che ogni pugnalata che si rispetti deve avere. Inclusa l' apertura della cassaforte blindata del pm a sua insaputa e la sottrazione di tutti gli atti dell' inchiesta «Why not» ben prima che la decisione di avocazione fosse notificata a de Magistris (ieri, cioè tre giorni dopo). Ma andiamo con ordine, perché a memoria d' uomo, e di giurista, e di politico, e di chiunque, ciò che è accaduto in questi tre giorni a Catanzaro non è mai accaduto in Italia dal 1861 a oggi. E forse non è mai accaduto nemmeno in paesi retti da regimi antidemocratici e illiberali. La decisione di Dolcino Favi di togliere l' inchiesta a Luigi de Magistris è basata su due motivi: il primo è che essendo Clemente Mastella un ministro, «va investito il tribunale dei ministri»; il secondo è che «il dottor de Magistris versa, a parere dello scrivente, in un conflitto d' interessi davvero evidente». Il conflitto d' interessi del pm, spiega Favi, «è indubbio, perché il pm è condizionato dalla pendenza del procedimento disciplinare» nei suoi confronti. In altri termini, da quando Mastella ne ha chiesto il trasferimento, de Magistris non sarebbe più sereno nei riguardi di Mastella. Una motivazione che in questi giorni era stata già contestata da più parti perché, è stato detto, sarebbe un pericoloso precedente: basterebbe che un ministro della Giustizia in odore di iscrizione sul registro degli indagati chieda il trasferimento del pm che lo indaga per porre quest' ultimo in una situazione di «conflitto di interessi» e quindi indurlo a mollare l' inchiesta. Ma è l' altra motivazione, la presunta violazione dell' obbligo di inviare gli atti al tribunale dei ministri, che mina nel suo complesso la decisione di Favi. E qui non c' entrano le questioni di diritto. Qui è proprio «il fatto» che non regge. O meglio, il fatto non c' è. Lo spiega lo stesso pm de Magistris: lui, dice, non doveva inviare un bel nulla al tribunale dei ministri, poiché stava indagando su Mastella per fatti antecedenti alla sua nomina a ministro. E, in ogni caso, come sempre avviene, «avrebbero potuto chiedermelo», dice il pm, poiché né il procuratore generale né il procuratore capo potevano sapere «in che veste fosse stato iscritto Mastella». E se anche per ipotesi Mastella fosse stato indagato come ministro, dice ancora il pm, «la sua posizione si sarebbe potuta stralciare, che bisogno c' era di sottrarmi l' intera inchiesta?». Ma l' intera inchiesta «Why not», ecco l' altra anomalia, per dirla con un eufemismo, era stata già prelevata, fisicamente, dalla cassaforte blindata del pm mentre questi, ancora domenica scorsa, nel suo ufficio, attendeva che gli fosse notificato il provvedimento. Ricapitoliamo, per chi pensa che la giustizia sia lenta: venerdì mattina, il procuratore della Repubblica (in realtà, il procuratore aggiunto Salvatore Murone, poiché il procuratore capo Mariano Lombardi è assente) invia una relazione al procuratore generale Dolcino Favi. Nella stessa mattinata di venerdì Favi, «vista la relazione del Sig. Procuratore», emette il decreto di avocazione - sul quale, di suo pugno, scrive: «Vi si dia immediata esecuzione» - e lo trasmette al procuratore capo Lombardi. Nello stesso giorno, nel pomeriggio, viene convocata in Procura la segretaria del pm de Magistris, la signora Maria, alla quale viene ordinato di aprire, con le chiavi che ha in custodia, la cassaforte blindata in cui il pm conserva tutti gli atti di «Why not». Maria ubbidisce e poi, quando lo racconta per telefono al pm, scoppia a piangere. Il decreto di avocazione, intanto, resta sulla scrivania di Lombardi per tre giorni e solo ieri mattina viene notificato al pm. E per la serie «dopo l' avocazione le indagini proseguiranno comunque», l' interrogatorio del nuovo supertestimone di «Why not», l' ex assessore regionale Giuseppe Tursi Prato, previsto per ieri pomeriggio, è stato rinviato «sine die». Nonostante la procura generale abbia solo un mese per chiudere l' inchiesta tolta a de Magistris.

C. Vulpio, Corr. 23/10/07

Bruxelles avverte l' Italia: spesa pubblica mai così alta, oltre la soglia del 50% del Pil

Nel 2006 la spesa pubblica ha toccato il record nazionale sfondando il tetto del 50% del Pil continuando con l' esecutivo di centrosinistra la progressione messa in moto dal governo di centrodestra. Il livello del 47,7% del Pil del 2004 era passato al 48,3% nel 2005 e si è attestato al 50,1% nel 2006. In Europa l' anno scorso solo la Francia ha speso più dell' Italia (il 53,4% del Pil), ma per sostenere un sistema di servizi pubblici considerato molto più efficiente e soddisfacente. In più Parigi può contare su un indebitamento dello Stato al 64,2% del Pil, quindi vicino a quel 60% consigliato dal Patto di stabilità come obiettivo di riferimento. L' Italia invece nel 2006 ha visto il suo debito arrivare al 106,8%, il livello più alto fra i 27 Paesi dell' Ue che impone ai contribuenti italiani di pagare ben il 4-5% del Pil in interessi. Il rapporto fra il deficit e il Pil in Italia l' anno scorso è addirittura schizzato al 4,4%, giustificando la procedura per disavanzo eccessivo iniziata dalla Commissione negli anni di Berlusconi. Nel 2006 in Europa solo l' Ungheria (con il 9,2%) ha avuto un deficit più alto. Dieci paesi virtuosi hanno registrato un avanzo di bilancio.

da I.Caizzi, Corr. 23/10/07

Legalità, Italia 41esima nel mondo

Tangenti, mazzette, favori, appalti truccati: a che punto è l' Italia nella classifica mondiale della corruzione? Secondo l' Indice annuale 2007 di Transparency International, che misura il livello di corruzione in 180 Paesi, siamo al 41° posto (nel 2006 eravamo al 45°): significa che in quanto a malaffari l' Italia supera (con un voto di 5,2) non solo le grandi democrazie occidentali come Inghilterra, Germania, Francia, Spagna e Stati Uniti, ma anche nazioni come la Repubblica Ceca, l' Ungheria, il Cile, la Slovenia.
In testa alla graduatoria dei Paesi più «trasparenti» ci sono Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda (voto 9,4 per tutte e tre).

da corr.,23/10/07

martedì 23 ottobre 2007

I grandi gruppi si piegano alla mafia

Troppo rischioso, meglio non investire al Sud. Così hanno pensato Impregilo, 3 Italia, Italcementi, e molte altre grandi aziende. Alla mafia non si arrendono solo piccoli imprenditori.

G.Lonardi, Rep. 23/10/07, "Così i grandi gruppi si sono piegati"

sabato 13 ottobre 2007

Comune di Milano: 11 milioni di consulenze "illegalmente attribuite"

Novanta incarichi su novantuno illegittimamente attribuiti. Regolamenti riscritti, «singolare circostanza», pochi giorni prima del conferimento degli incarichi, cosa che potrebbe configurare il dolo. E poi, contratti stipulati in numero superiore all' ammissibile e con persone prive di titolo. Risultato: la Corte dei conti parla di un danno di 11 milioni di euro. A pagare di tasca propria, potrebbero essere il sindaco Letizia Moratti e tutti gli assessori. La procura regionale della Corte dei conti, sollecitata a suo tempo dal consigliere comunale Basilio Rizzo, ha terminato la sua indagine. E ha spedito all' esecutivo comunale un «invito a fornire deduzioni» entro 60 giorni. Secondo i magistrati, gli incarichi «sembrano tutti violativi di chiare disposizioni statutarie», oppure «fondati su illegittime modifiche» del regolamento comunale che regola la materia. Un primo profilo di illegittimità, la Corte lo trova nella mancata pubblicizzazione della decisione di affidare nuovi incarichi. Inoltre, ma il fatto «non è censurabile in punta di responsabilità», l' amministrazione ha «pressoché raddoppiato il numero delle direzioni centrali, portate da 13 a 23, in spregio alle direttive del governo sul contenimento della spesa e dei costi della burocrazia». Più grave il fatto che il nuovo regolamento del Comune prescinda dalla necessità di laurea per le funzioni dirigenziali. E così, si trovano dirigenti non soltanto non dottori, ma anche in «assoluta insufficienza dei requisiti professionali».
Altro capitolo ancora, quello sulla responsabile del settore servizi sociali Carmela Madaffari. La dirigente ha in corso contenziosi di fronte al tar e al giudice del lavoro dopo essere stata dichiarata decaduta «per gravi inadempienze» dalla carica di direttore generale dell' Asl di Lamezia Terme, mentre un analogo procedimento era stato disposto durante la sua dirigenza dell' Asl di Locri. La Corte ricorda che un cittadino non deve subire danni se le condanne non sono passate in giudicato. Ma «altrettanto garantismo sembra dovuto nei confronti dei cittadini/comunità, dei quali non può non essere rispettata l' esigenza di essere amministrati da dirigenti senza ombre».
Detto questo, la magistratura fa i conti. E per il periodo che intercorre tra le nomine e il 30 settembre scorso, calcola che il Comune abbia versato 11 milioni e 669mila euro. Da ascrivere «con vincolo di solidarietà ove dovesse accertarsi la sussistenza di dolo», al sindaco Moratti, al direttore Borghini e ai componenti della giunta. La risposta, ora, spetta a loro.

da M.Cremonesi, Corr, 12/10/07

Debito, belgi e irlandesi i modelli da copiare

«Se ce l' abbiamo fatta noi, ce la potete fare anche voi». Nessuno può dire che i belgi, oggetto di barzellette francesi un po' come i carabinieri da noi, abbiano mai ecceduto in autostima. Quando gli si chiede dove sia finito il debito di Bruxelles, persino Paul De Grauwe è tentato di rifugiarsi nell' autoironia. E dire che lui, economista (fiammingo) di Lovanio e senatore liberale belga, avrebbe da raccontare una storia che davvero può far riflettere «anche» gli italiani. È in effetti la storia di un inseguimento e di un sorpasso improbabili sì, eppure avvenuti nel giro di pochi anni a opera un Paese in teoria sempre sull' orlo di una fine cecoslovacca, o peggio ancora jugoslava come qualcuno credeva negli anni ' 90. È proprio allora, con i secessionisti al 30% a Anversa, un sistema politico illeggibile e l' industria del sud francofono in depressione cronica, che il Belgio si mette alle spalle il Paese che nell' Unione gli assomiglia di più. Nel ' 93 l' Italia ha un debito al 118,5% del prodotto interno lordo (Pil) e il Belgio lo ha al 138%, un livello che neppure il pentapartito travolto da Tangentopoli e dalla crisi della lira aveva raggiunto. Sei anni dopo il Belgio è avanti e lascia al governo di Roma la maglia nera: 114,8% a 114,9%. La velocità come si vede è diversa e ignora persino le sempre risorgenti tentazioni scissioniste del vecchio regno post napoleonico. Quest' anno, il Belgio chiuderà con un debito totale delle pubbliche amministrazioni all' 83,9% mentre l' Italia viaggia venti punti sopra: battuti e distanziati da un sistema in permanente fase terminale. Possibile? Sì se nell' autoironia di Paul De Grauwe si legge il messaggio di uno Stato federale che non ha mai cercato ricette magiche, la vendita dell' argenteria o delle lenzuola. Vero, il Belgio degli anni ' 90 non ha avuto mano leggera sulle privatizzazioni, fino a mettere in vendita persino certe ambasciate. Ma il segreto della cura è che l' unico, vero choc è stato quello della determinazione politica di una comunità per altri versi divisa su tutto. Persino le litigiose amministrazioni regionali, quelle dalle quali passa quasi ogni euro su quattro di spesa pubblica, hanno accettato il controllo (ex post ma ferreo) di un' autorità centrale fatta di professori, banchieri centrali, esperti ministeriali: più statalisti e disciplinati gli scissionisti fiamminghi di certi sindaci di Taranto in default o dei responsabili dei tanti buchi sanitari regionali italiani. Per non parlare della spesa pubblica, cresciuta per finanziare il quieto vivere fra regioni e partiti disparati e poi tagliata di 15 punti di pil negli ultimi vent' anni: l' opposto del percorso italiano. Ne è uscita una Bruxelles oggetto di barzellette parigine ma in pareggio di bilancio dal 2000, che ha fatto del taglio del debito una palla di neve sempre più rapida con il calo degli interessi passivi e un surplus primario doppio rispetto a quello di Roma (al 4% del pil). Il resto della ricetta ricorda un po' l' altro «choc» europeo, quello dell' Irlanda. Sia Bruxelles che Dublino hanno ridotto le imposte sulle imprese e agito per attrarre il massimo di investimenti esteri. Il Belgio cresce sopra la media di Eurolandia da un decennio, l' Irlanda è riuscita a falciare il debito dal 100% circa al 25% del pil in dodici anni con imposte d' impresa al 12% e crescita al 5%. Ma quello è un esempio da giovane «tigre». A noi basterebbe la modesta determinazione di quei vecchi, lenti felini dei belgi.

F. Fubini, Corr. 12/10/07

martedì 9 ottobre 2007

Uranio impoverito, Parisi: "Tra i soldati all'estero 255 casi di tumore". Solo?

Sono 255 i malati di cancro, tra i militari italiani che negli ultimi dieci anni hanno partecipato a missioni all'estero, 37 sono deceduti. Almeno stando ai dati ufficiali. A rivelarlo è il ministro della Difesa, Arturo Parisi, nel corso di un'audizione davanti alla commissione d'inchiesta sull'Uranio impoverito del Senato. Numeri, questi, assai inferiori rispetto a quelli forniti dall'Osservatorio militare che, infatti, li contesta frontalmente e parla di almeno 2.500 malati e 150 morti.

Secondo i dati della Direzione di sanità militare, spiega il ministro, "sono in totale 255 i militari che hanno contratto malattie tumorali e che risultano essere stati impegnati all'estero nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq e in Libano nel periodo 1996-2006. Di questi militari, 37 sono morti". Nello stesso periodo i militari malati per tumore, e non impiegati all'estero, sono stati 1.427.

Ma Domenico Leggiero, dell'Osservatorio militare, l'associazione che assiste gli appartenenti alle forze armate e i loro familiari, sostiene che i dati sono molto diversi: "Ci dispiace, ma così anche Parisi perde credibilità. Avevamo riposto speranze in lui, ma queste cifre sono troppo lontane dalla verità".

Leggiero è pronto a mostrare "altri dati ufficiali della Difesa che parlano di un numero di malati quasi decuplicati e di un numero delle vittime da moltiplicare per tre: "Proprio oggi, in Sicilia, si stanno svolgendo i funerali del carabiniere Giuseppe Bongiovanni, morto l'altro ieri per un tumore contratto durante una missione all'estero. Se andate a vedere, questa morte non risulta al ministero".

da repubblica.it

sabato 6 ottobre 2007

Enichem, nessun colpevole per 17 morti

È domenica, il 26 settembre del 1976. Sono passati solo due mesi dal disastro di Seveso, in Lombardia. Gli operai dello stabilimento Enichem di Manfredonia sono al lavoro quando la colonna di lavaggio dell'anidride carbonica dell'impianto di produzione dell'ammoniaca scoppia. Un boato, poi dieci tonnellate di anidride arseniosa, una sostanza altamente cancerogena, fuoriescono dall’impianto. I dirigenti mandano immediatamente gli operai a riparare i danni. Senza alcuna protezione. Concluse le operazioni di bonifica, tutto a posto, si può tornare al lavoro. Le analisi del sangue di alcuni lavoratori danno valori sballati. Ma per l’azienda, e per qualche medico compiacente, la causa «sta nei troppi crostacei mangiati dai lavoratori». Negli anni a venire, sono almeno 22 i lavoratori che si ammalano di cancro. E diciassette di loro sono già morti.

La storia dell’Enichem a Manfredonia comincia nel 1970. Una manna dal cielo per quel fazzoletto di Puglia che è il Gargano, una terra dove il bosco della foresta Umbra al centro e le scogliere a picco sul mare non sono mai state terra fertile per gli investimenti elle grandi industrie. Ma ora è arrivata l’Eni, a sfamare centinaia di disoccupati foggiani. Tra di loro c’è anche Nicola Lo Vecchio un operaio che ha fatto carriera fino a diventare capoturno. All’inizio degli anni Novanta si ammala di cancro ai polmoni, anche se non ha mai toccato una sigaretta in vita sua. Ha un sospetto, e la voglia di capire lo assale. È così che Nicola comincia a ricostruire il ciclo di produzione interno al petrolchimico. Gli dà una mano Maurizio Portaluri, un oncologo associato a Medicina Democratica. Nel 1996 hanno abbastanza elementi per presentare un esposto contro l’azienda. È lo stesso anno in cui l’Enichem cessa le attività nello stabilimento pugliese. Nicola Lo Vecchio muore l’anno dopo, ma il processo ormai è partito.

Legambiente, il Wwf, un'associazione ambientalista locale Bianca Lancia, la Regione Puglia, il ministero dell'Ambiente e i comuni di Monte Sant'Angelo, Manfredonia e Mattinata, («poi ritiratisi – secondo quanto riferito da Legambiente – per ricevere un indennizzo»), si costituiscono parte civile perché condividono la tesi dell'accusa, secondo la quale «la mancata adozione di provvedimenti precauzionali a tutela degli operai impiegati per la rimozione dei materiali contaminati e le riparazioni degli impianti, ne avrebbe determinato una grave esposizione con conseguenze anche letali negli anni a seguire».

All’indomani della sentenza, è forte l’amaro in bocca. «L'inquinamento a Manfredonia ha ucciso, questo è un dato di fatto inoppugnabile – dichiara a denti stretti il presidente di Legambiente, Roberto Della Seta – e per vederlo affermato ci impegneremo con ogni mezzo possibile». «Riteniamo importante – aggiunge Gianfranco Botte, responsabile pugliese del Wwf – acquisire le motivazioni della sentenza, confidando in una eventuale impugnazione da parte della pubblica accusa».

Oggi, dell’Enichem nel golfo di Manfredonia rimane solo un pontile lungo chilometri che si staglia nell’Adriatico. E una sentenza che assolve tutti.


da unità.it

martedì 25 settembre 2007

Convergenze

"Oggi in prigione finiscono solo i poveracci e qualche spacciatore di droga, per poco tempo, e i magistrati come me rischiano la disoccupazione". Lo ha detto al Corriere Bruno Tinti, procuratore aggiunto di Torino, autore del libro "Toghe rotte". Il riferimento è alla depenalizzazione del falso in bilancio: secondo Tinti, la maggior parte dei procedimenti per reati finanziari si conclude con la prescrizione o non inizia neppure. "Non c'è alcuna differenza tra un governo e un altro. Da Mani Pulite in poi, la preoccupazione stata una sola: rendere non punibile la classe dirigente di questo paese".
La giustizia è un tema su cui maggioranza e opposizione si trovano spesso d'accordo. "Sulle toghe scomode - vedi caso De Magistris - c'è convergenza tra governo e centrodestra" ha detto sempre sul Corriere (qualche pagina più avanti) Cesare Salvi, presidente della commissione giustizia del Senato.

lunedì 24 settembre 2007

Coincidenza

Giovedì la Fiat ha affidato a Goldman Sachs l’incarico di collocare 15 milioni di azioni Mediobanca. E questo proprio mentre era pronto per il mercato un rapporto di Goldman sull’automotive europeo che ha alzato il target price di Fiat da 26 a 30 euro.

CorrierEconomia, 24/9/07

"Finpart, un fallimento che nasce dagli interessi degli istituti di credito"

Nella relazione del curatore fallimentare e nella ricostruzione di Gianluigi Facchini l’accusa alle banche

di Walter Galbiati

Le indagini sono chiuse. Il fallimento della Finpart, l’azienda di Gianluigi Facchini e dello scomparso Giancarlo Arnaboldi passa ora all’esame dei giudici. Una storia di mala finanza che non ha mancato di lasciare morti e feriti sulla sua strada. E come il più delle volte capita, le vittime, oltre che tra i lavoratori e i fornitori, si contano tra i piccoli risparmiatori. Le cifre del disastro stanno nella relazione del curatore fallimentare, Piero Canevelli. Su un passivo di oltre 300 milioni di euro, ben 250 milioni fanno capo a obbligazionisti. Solo 35 milioni, invece, sono da ricondurre al sistema bancario.
La storia della Finpart è quella di un’azienda cresciuta velocemente attraverso acquisizioni di altre aziende, dove però i mezzi arrivavano più da terzi che dai soci. Uno sbilanciamento che a fine 2001 ha portato la società al collasso. Facchini ha cercato di rilanciare senza riuscirvi alcuni marchi storici della moda italiana e, nel corso dell’incidente probatorio, ha indicato in un evento, l’emissione del bond Cerruti, la principale causa del tracollo finanziario del gruppo. Un’emissione obbligazionaria mastodontica per le possibilità di rimborso della Finpart, che si è sommata a una crisi del settore tessile acuita dal crollo delle Torri Gemelle. La Finpart a metà 2001 aveva già acquistato il 51% della Cerruti, la società di alta moda che insieme con i marchi Moncler, Best Company, Henry Cotton’s e Frette, avrebbe dovuto costituire il nocciolo duro del gruppo.
Il restante 49%, valutato intorno a 80 milioni di euro, era rimasto in mano a Nino Cerruti che in azienda continuava a svolgere il ruolo di direttore creativo. La Finpart si era impegnata a rilevare quella quota nel giro di tre anni, ma le banche, cavalcando i dissapori con Cerruti, convinsero la Finpart ad emettere un prestito obbligazionario per comprare anticipatamente tutta la società. Servono solo 80 milioni, ma gli advisor, Ubm (gruppo Unicredit) e Abax Bank (gruppo Credem) spingono per emettere titoli di debito per 200 milioni di euro. Un’operazione «asservita scrive il curatore fallimentare all’interesse di Unicredit», perché la banca usò l’eccesso di liquidità raccolta per rientrare della propria esposizione nei confronti di Finpart, nata con l’acquisto del primo 51% della Cerruti.
«Il bond racconta Facchini nel corso dell’incidente probatorio era stato inizialmente pianificato a 150 milioni per consentire anche un rifinanziamento per lo sviluppo delle aziende. [...] Una parte di questo bond, segnatamente per la quota eccedente i 150 milioni, gli altri 50 milioni, fu convogliata da Unicredit direttamente a rimborso anticipato di una tranche del finanziamento a scadenza fissa gennaio 2002, quindi fu rimborsato anticipatamente questo finanziamento Unicredit ottenuto per l’acquisto del 51% [di Cerruti]».
Ma con quali banchieri aveva rapporti Facchini? «Inizialmente io trattavo col dottor Pietro Modiano, che era l’amministratore delegato di Ubm, e poi invece gradualmente anche questo contatto si dilatò e lui delegò altri suoi sottoposti.[...] che erano il dottor Davide Mereghetti e il dottor Luca Fornoni ... Fausto Galmarini curava l’aspetto creditizio», mentre per Abax Bank c’era Fabio Arpe. Per convincere il mercato che la Finpart sarebbe stata in grado di ripagare quel bond, le stesse Ubm e Abax Bank emisero un giudizio favorevole sull’operazione. «Dopo l’emissione del bond, la posizione finanziaria netta dice Facchini ammontava a 500 milioni di euro. Analizzati e ritenuti sostenibili dalle stesse Unicredit e Abax Bank nelle loro credit opinion».
Per quanto riguarda Unicredit, secondo il curatore, «la banca al di là della mera facciata dell’acquisto di un nuovo gruppo aveva solo l’interesse a rientrare del suo credito e ne aveva già precostituito le condizioni; conseguito il rimborso, ha immediatamente abbandonato Finpart; il loro intervento era stato accuratamente programmato per far sì che al passivo dell’ineluttabile fallimento Finpart, invece del Credito Italiano vi fossero alcune migliaia di risparmiatori». Alla fine l’esposizione di Unicredit al fallimento sarà di 1,4 milioni di euro.
La società, infatti, dopo un lungo tira e molla, fallisce il 25 ottobre 2005, ma per il curatore era «decotta» fin da allora, tanto è vero che per l’accusa i primi fatti di bancarotta (la compravendita di azioni Pepper e Frette) risalgono proprio agli anni 2000 e 2001. Le banche, rientrate dei crediti, mollano la baracca. Nell’aprile 2002 la Finpart subisce una vera e propria stretta creditizia. «Le linee di credito spiega Facchini sono congelate», non revocate, in modo tale che «nella Centrale rischi appari come affidato», ovvero come un cliente che ha fidi in abbondanza, mentre in realtà il cliente ha a disposizione linee bancarie che non può utilizzare.
Per risolvere i problemi con il sistema bancario, Facchini si rivolge a Ubaldo Livolsi. La soluzione proposta dal nuovo consulente è di effettuare un aumento di capitale da 100 milioni di euro. Ma anche di questi soldi, in gran parte garantiti dalla Popolare di Intra, una delle banche più esposte verso Facchini e il suo gruppo, ben pochi restano a disposizione di Finpart. Interbanca che si impegna a cogarantire l’aumento di capitale ne approfitta per rientrare di una linea di credito ponte di 26 milioni di euro, mentre la Lafico, società di investimenti del governo libico, che si impegna a versare 30 milioni di euro per l’aumento di capitale, costringe Facchini ad utilizzarne ben 24 per acquistare una quota di Olcese, un’altra società tessile in fallimento, gestita da Paolo Mettel e dal figlio di Gianni Varasi, Leopoldo. Secondo la ricostruzione di Facchini, Livolsi chiede di fare l’operazione con Lafico per fare un favore a Gaetano Miccichè, approdato da poco a Banca Intesa, nella speranza di avere un appoggio dalla banca di Corrado Passera e di Giovanni Bazoli. «Miccichè dice Facchini che era stato amministratore delegato di Olcese, fino alla credo primavera del 2002, aveva un ottimo rapporto con il dottor Livolsi e aveva promesso supporto lui stesso a Finpart, tramite Livolsi, nell’ipotesi in cui l’operazione con i libici fosse andata in porto, in sostanza, cioè, che si salvasse Olcese. L’interesse di Miccichè chiaramente era di avere l’operazione Olcese in sicurezza». Alla fine si rimanda solo di qualche anno il fallimento di Finpart. Mentre i consiglieri, i sindaci e i soci che si sono succeduti con peripezie varie alla guida del gruppo sono in attesa di un possibile rinvio a giudizio.


Affari&Finanza, 24/9/07

venerdì 7 settembre 2007

Le scarcerazioni facili non esistono

Ieri i tg annunciavano un supervertice al Viminale contro le "scarcerazioni facili", per studiare il modo di tenere dentro i criminali ed evitare che vadano a spasso prima della condanna definitiva. Scrivevo, e ribadisco, che le scarcerazioni facili non esistono. Esistono scarcerazioni a norma di legge: cioè di quella legge fatta da politici che spesso, poi, non ricordano più di averla fatta. Proprio ieri i carabinieri di Treviso arrestavano due albanesi e un rumeno per il duplice omicidio di Gorgo al Monticano. Il rumeno ha confessato le sue responsabilità e quelle dei due presunti complici. Uno dei tre, condannato per stupro, era uscito grazie all’indulto.

Scarcerazione facile? Sì, ma a opera del Parlamento (esclusi Idv, Pdci, Lega e An) che un anno fa votò l’indulto. Comunque, indulto a parte, se tanti imputati tornano in libertà prima che finisca il processo (sono presunti innocenti fino alla sentenza definitiva che arriva in media 10-12 anni dopo che han commesso il fatto) non è colpa dei magistrati, che alla fine del termine di custodia cautelare sono obbligati a scarcerarli. Né si può pensare di tener dentro per anni chi non è stato ancora condannato, come ai tempi di Valpreda. Il problema è dunque la lunghezza dei processi, che dipende anzitutto da due fattori. Primo: i troppi gradi di giudizio, che nei paesi seri sono al massimo due e da noi almeno cinque: indagini preliminari, udienza preliminare, primo grado, appello e Cassazione. Secondo: il regime della prescrizione, che nei paesi seri s’interrompe col rinvio a giudizio , mentre da noi continua a galoppare anche dopo il rinvio a giudizio e persino dopo la condanna in primo e secondo grado.

Basterebbe abolire il grado di appello (salvo in presenza di prove nuove) - come ha proposto di recente,inascoltato, il vicepresidente del Csm Nicola Mancino - e fermare la prescrizione all’udienza preliminare, per ridurrebbe i tempi dei processi a costo zero e liberare risorse umane e finanziarie per celebrare ancor più celermente gli altri due gradi di giudizio. A cascata, eviteremmo tante scarcerazioni di colpevoli per decorrenza dei termini, mentre gli innocenti ingiustamente accusati avrebbero giustizia molto prima di oggi. Ma di queste misure di puro buonsenso non pare si sia parlato nel supervertice al Viminale, occupato dalle chiacchiere sui lavavetri e gli ambulanti.

Pare che si sia parlato anche di mafia e di ’ndrangheta: e qui, com’è noto, il problema non è solo tener dentro i boss e i killer, ma prenderli. Bene, anzi male: l’ordinamento giudiziario Mastella varato a fine luglio dal Parlamento, fra i vari disastri, provocherà anche questo: l’azzeramento delle Procure, comprese quelle antimafia. La norma infatti prevede il bollino di scadenza dopo 8 anni per tutti gli incarichi direttivi e semidirettivi. Vuol dire che tutti i procuratori capi e aggiunti in attività da 8 anni dovranno sloggiare su due piedi. Solo a Palermo "scadono" e se ne andranno alcune memorie storiche dall’antimafia, da Lo Forte a Pignatone, da Scarpinato a Lari ad Alfredo Morvillo. A Torino se ne andrà il procuratore Marcello Maddalena, noto soprattutto per le sue indagini sulle cosche trapiantate in Piemonte . Il Csm calcola che almeno 400 fra capi e aggiunti se ne andranno , e occorrerà almeno un anno per rimpiazzarli tutti.

È troppo pretendere che, tra un allarme spugnette e un allarme collanine, il governo prenda sul serio anche l’allarme del Csm sulla scomparsa dei procuratori?

Marco Travaglio
L’Unità 5.9.2007

giovedì 6 settembre 2007

Lirio Abbate, cronista sotto assedio a Palermo

Dice Lirio Abbate che il lavoro di cronista a Palermo o è accurato o non è. Lirio ha 37 anni, è redattore all'Ansa. Come tutti i siciliani "buoni", come tutti i siciliani migliori, non è portato a far gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi. Sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del gruppo, della "cosca", ricordava Sciascia. Sarà per questo, che Lirio se ne sta per conto suo e segue la sua strada anche se sa bene quale sarebbe il modo più conveniente per starsene in ombra, un po' in disparte e in pace. Puoi sempre scivolare lento sulla superficie dei fatti e quindi "prendere atto": prendere atto che quello è indagato per mafia; che quell'altro è stato rinviato a giudizio; che quell'altro ancora è sotto processo per favoreggiamento alle cosche; che la magistratura sempre "indaga a 360 gradi".

Nessuno te ne vorrà. È il tuo lavoro e se fai il tuo lavoro con prudenza, senza eccessi, con mediocrità, nessuno salterà su contro di te. Però, dice Lirio, che ha una compagna e un bimba di dieci mesi, questo lavoro non è accurato, non è onesto perché non racconta quel che vede e sa: "Io so, noi sappiamo chi sono i mafiosi e gli amici dei mafiosi o i loro protettori. Non ho, non abbiamo bisogno di attendere una sentenza o la parola della Cassazione o un'inchiesta giudiziaria perché penso che, prima della responsabilità penale, sempre eventuale, ci sia una responsabilità sociale e politica accertabile. Se il deputato, il consigliere regionale, l'assessore, il primario, il professore universitario se ne vanno in giro con il mafioso è un fatto. Si conoscono, passeggiano sottobraccio, si baciano quando s'incontrano. È soltanto accuratezza non rinviare ai tempi di una sentenza quel racconto. È il mio lavoro dirlo ora, subito. Non sono una testa calda, non sono un estremista, sono un cronista e credo che il mio impegno sia stretto in poche parole: raccontare quel che posso documentare".

Deve essere questa convinzione che ha fottuto Lirio. Alla vigilia delle elezioni amministrative (maggio 2007), il suo metodo di lavoro deve aver messo di cattivo umore qualche capintesta moralmente opaco. La sua certosina ostinazione a ricostruire la rete di complicità "borghesi" che, per 43 anni, ha custodito la latitanza di Bernardo Provenzano non deve aver migliorato l'umore di altri. Un giorno lo chiamano in questura e gli dicono che "non si deve preoccupare, ma che sarà protetto con discrezione". Lirio si preoccupa, altroché. Cerca di capire. Capisce che sono in corso delle intercettazioni nel quartiere mafiosissimo di Brancaccio e in quelle conversazioni è saltato fuori che occorrono delle armi per fare "una sorpresa a quel rompicoglioni". Dice Lirio che, in quei momenti, quel che ti sta accadendo ti appare del tutto sproporzionato. "In fondo, sei consapevole che il tuo lavoro, per quanto meticoloso e accurato, nella migliori delle ipotesi si avvicina, senza svelarla, all'autentica realtà delle cose. Ti chiedi qual è stata la frase, il dettaglio, il nome che può avere inquietato e non sai dirlo. Puoi forse immaginarlo, non averne la certezza. Così vai avanti. Fingi che non sia accaduto niente. Tieni per te l'angoscia, senza rovesciarla su chi ti è accanto. Tanto passerà".

Non passa invece. Un giorno Lirio trova sulla sua auto "la lettera di un amico". Lo invita "a stare attento". In questura dicono che la minaccia è "molto seria", che una scorta armata lo seguirà passo passo durante il giorno. Per un cronista andarsene in giro con uomini armati è molto buffo. Il lavoro ne è irrimediabilmente pregiudicato. Quale "fonte" accetterà di incontrarti? Quale fonte ti confermerà quel che non potrebbe confermarti? Devi fermarti all'ufficialità, al "prendere atto". Dice Lirio che anche per questo, con la direzione dell'Ansa, decide di "staccare", di venir via dalla Sicilia, di starsene qualche mese a Roma, nella redazione centrale.

Lirio è tornato a Palermo soltanto dieci giorni fa e quelli subito si sono fatti sotto. Nella notte gli hanno sistemato una bomba incendiaria sotto l'auto. Il quartiere della Kalsa bloccato per ore. Polizia a sigillare la zona; artificieri per disattivare l'ordigno; vigili del fuoco preparati al peggio; carri dei vigili urbani per spostare in fretta le auto che davano impiccio e, nei giorni successivi, il silenzio di Palermo. Un silenzio freddo, scrupoloso, amaro che lo imprigiona come in una bolla d'aria. Dice Lirio che non vuole parlare di "solitudine" perché gli sembra retorico e inesatto: se ne vergognerebbe.

"In quel che mi accade" sostiene Lirio "mi sento fortunato. Sento accanto a me l'amichevole presenza dei miei colleghi di redazione. La direzione dell'Ansa è premurosa. Polizia e magistratura di più non potrebbero fare per rassicurarmi. Ma, se si esclude questo cerchio protettivo, avverto l'indifferenza della città. Un sindacato di giornalisti ha diffuso un comunicato in cui si diceva, più o meno, che - è vero - Lirio Abbate è minacciato, ma è un affare che riguarda soltanto lui perché - tranquilli - i cronisti siciliani non corrono alcun pericolo. Si può? Quest'incomprensione collettiva è un grumo di veleno e di amarezza che aggrava l'angoscia peggio della minaccia di quei vigliacchi e non parlo di me soltanto, parlo delle decine di casi che, come il mio, si consumano ogni giorno in città, nell'indifferenza di una Palermo muta che quotidianamente "prende atto" di negozi bruciati dagli estorsori che non risparmiano i piccoli e piccolissimi esercizi e finanche i distributori di benzina. Una città dove, se ti portano via l'auto o la moto, sai a chi puoi rivolgerti - tutti sanno chi è il mafioso del quartiere - per fartela restituire dietro il pagamento di una cauzione, così la chiamano. È vero, l'iniziativa di Confindustria è straordinaria. Erano dodici anni che le associazioni antiracket invocavano un gesto, un passo deciso. Ora c'è una promessa. Vedremo con il tempo se alle parole seguiranno i fatti. Però, perché prima di mandar via chi paga il pizzo non si comincia a mettere fuori da Confindustria l'imprenditore condannato per mafia? Ce ne sono. Basta guardare a Caltanissetta".

Dice Lirio che hanno ragione il capo dello Stato e il governo a chiedere che "la società civile" faccia la sua parte contro la mafia. È la parte del problema con cui egli sente di dover fare più dolorosamente i conti, oggi. "È un paradosso. Credi di dover fare in modo accurato il tuo lavoro di cronista per illuminare nell'interesse dell'opinione pubblica, di quella "società civile", gli angoli bui e sporchi del cortile di casa. Poi scopri che sei un ingenuo. Nessuno vuole guardare da quella parte, in quegli angoli - no - preferiscono voltarsi da un'altra parte anche se stai lì a tirargli la giacchetta. E allora perché lo faccio?, ti chiedi. Perché infliggo a chi mi è caro ansia, paura, apprensione e, Dio non voglia, pericoli? Perché, mi chiedo, non ascolti chi ti dice: ma chi te lo fa fare, vattene da qui, vattene subito, non ti accorgi che non vale la pena?".

La voce di Lirio sembra rompersi ora. Percettibilmente, il timbro diventa roco e trattenuto come di chi si sta sforzando di controllare un'emozione che forse è rabbia, forse è avvilimento o forse entrambe le cose. Dopo qualche secondo, Lirio dice finalmente: "Lo sai perché non decido di andarmene? Per onore. Sì, per onore! Non per il mostruoso, folle, ridicolo onore di cui si riempiono la bocca mafiosi deboli con i forti e forti con i più deboli, ma per quell'onore che mi chiede di avere rispetto di me stesso, che mi impedisce di inchinarmi alla forza e alla paura, di scendere a patti con ciò che disprezzo. Quell'onore che molti siciliani hanno dimenticato di coltivare".

Giuseppe D'Avanzo, Rep.
(5 settembre 2007)

martedì 4 settembre 2007

Clave e forconi per la rivolta fiscale della Lega

di Michele Serra, Espr. 30/8/07


Un gruppo di esperti di Lega e Forza Italia sono riuniti in una località segreta, che non rilascia ricevuta, per definire nei dettagli il piano della Rivolta Fiscale. Questi i punti principali.

Eroi
È molto importante indicare al popolo alcuni personaggi di forte impatto simbolico. Già pronto un piccolo ma efficacissimo elenco di Eroi Padani. Tra questi il barista veneto Angelo Zipiton, che pur di non consegnare il registratore di cassa alla finanza lo ha ingoiato morendo soffocato tra gli applausi dei clienti; il commercialista bergamasco Ugo Propellenti detto 'Stratagemma', in grado di ritoccare le dichiarazioni dei redditi cancellando gli ultimi due zeri con un pennarello, oppure bruciandole; il nullatenente di Varese Silvio Sbranzica, che riceve le Fiamme Gialle nel suo Boeing privato e per dimostrare la sua indigenza fa servire dalle hostess il vassoio-standard dell'Alitalia, quello con due biscottini, mezzo bicchiere d'acqua e al posto delle posate due dita di plastica.

Proselitismo
Convincere chi già non paga le tasse da anni a partecipare alla Rivolta Fiscale è molto difficile. Gli elettori non capiscono perché un gesto naturale e consolidato, che da generazioni fa parte delle tradizioni locali, debba essere considerato questa gran novità. Particolarmente svantaggiati gli evasori totali: come possono partecipare alla rivolta se già non pagano una lira? L'idea dei Saggi padani è questa: chi paga poco non paghi più niente, chi non paga niente vada al più vicino ufficio delle imposte e chieda con fermezza di prelevare dei soldi. Basta anche una somma simbolica.

Fucili
I fucili evocati da Bossi per armare i rivoltosi erano - come spiega in una nota l'ufficio stampa della Lega - solamente una metafora, che la malafede dei giornalisti ha voluto prendere alla lettera. In realtà, i rivoluzionari padani si serviranno solo di forconi, clave e torce, accompagnando gli assalti con urla gutturali, le donne vestite di stracci e con i poppanti al seno. I poppanti dovranno avere già una dentizione completa per poter poppare al seno rifatto.


Corpi speciali
Al raggruppamento più antico, i gloriosi Bracconieri della Valtellina che hanno già disseminato di tagliole ed esche avvelenate piazza del Duomo a Milano, si affiancheranno i corpi più moderni. Le Brigate Ussignur, nuclei di pensionati disfattisti che si aggirano per le città dicendo "Ussignur, qui la va sempre peggio". Le Sciampiste del Nord-Est, che si preparano ai momenti più duri della battaglia stirando i capelli a Michela Brambilla con ferri arroventati. I Ristoratori Padani, che vanno all'assalto sfondando i cordoni di polizia con i carrelli dei bolliti e presentando il conto alle loro vittime su un foglietto a quadretti scritto a matita. I Commercialisti della Valtellina, guidati da Giulio Tremonti, che hanno il compito di torturare i prigionieri nemici invitandoli a 'Porta a Porta'. Infine, gli astuti e temutissimi Elettrauto dell'Hinterland Milanese (Ehm), che appiedano le forze di polizia sostituendo la batteria nuova dei gipponi con una avariata.

Nuovo Stato
Nel nuovo Stato esentasse, le scuole, gli ospedali e le strade saranno finalmente aboliti e agevolmente sostituiti dall'iniziativa privata. Il problema degli spostamenti è considerato irrilevante: la gente deva stare a casa sua e finirla di disturbare andando di qua e di là. Rimarranno in vigore solo i charter per Sharm-el-Sheik per consentire le vacanze alle sciampiste padane, che diventeranno il ceto egemone e, in prospettiva, l'unico previsto per selezionare la Vera Razza Padana. La scuola pubblica, covo di comunisti e di donne isteriche, languirà finalmente fino all'estinzione, per la cultura basta la televisione. Gli ospedali pubblici saranno finalmente sostituiti dalla sanità privata: i medici abusivi della Valtrompia operano già da secoli a mani nude, disinfettando le ferite con il letame. E in ogni modo, inutile farla tanto lunga: i ricchi potranno curarsi in America, i poveri cantino ad alta voce 'La bela Gigugin' e non rompano i coglioni.
(30 agosto 2007)

lunedì 3 settembre 2007

Lumaca costosa

In tutto quel tempo un italiano qualsiasi potrebbe fare comodamente il giro del mondo: a piedi, camminando per otto ore al giorno. Dopo 1.210 giorni, ripassando dal tribunale, scoprirebbe che la sua causa per inadempienza contrattuale è stata finalmente discussa. Se fosse stato un cittadino britannico sarebbero bastati 229 giorni. Non andrebbe poi tanto meglio a un' impresa che volesse licenziare un dipendente per giusta causa: la decisione, in un tribunale italiano, arriva in media dopo 700 giorni. In un tribunale olandese, dopo 19. Ci sono pochi magistrati? A Bolzano c' è un giudice ogni 110 fra cancellieri e personale vario. A Campobasso, uno ogni 221. Forse anche per questo la giustizia italiana è la più cara d' Europa: 67 euro l' anno a testa, contro 22 del Regno Unito e 46 della Francia. Per non parlare della sanità, dove si fa un numero di Tac doppio rispetto alla Germania e triplo rispetto alla Francia e il costo medio del posto letto in ospedale pubblico va da 134 mila euro l' anno per la Lombardia a 200 mila euro in Campania. Troppi dipendenti pubblici? Nel Regno Unito sono più o meno gli stessi. Ma perché in Lombardia ce ne sono 10 ogni 10 mila abitanti, in Sicilia 22 e nel Molise addirittura 45?

S.Rizzo, Corr. 2/9/07

giovedì 23 agosto 2007

"Io e Bergman (quando ti telefona un genio)" di Woody Allen

Io e Bergman (quando ti telefona un genio)

di WOODY ALLEN


La notizia della morte di Bergman l'ho ricevuta a Oviedo, una graziosa cittadina nel nord della Spagna dove sto girando un film. Il messaggio telefonico di un amico comune mi è stato recapitato sul set. Bergman mi disse una volta che non voleva morire in una giornata di sole e poiché non ero presente, posso solo sperare che abbia avuto quel tempo piatto nel quale lavorano al meglio tutti i registi. L'ho detto già in passato a persone che hanno un'idea romantica degli artisti e che considerano la creazione artistica qualcosa di sacro: alla fine, l'arte non ti salva. Non importa quanto sublimi siano le opere che realizzi (e Bergman ci ha dato un menù di sbalorditivi capolavori del cinema), non ti proteggeranno dal fatale bussare alla porta che interrompe il cavaliere e i suoi amici alla fine de Il settimo sigillo. E così, in una giornata di luglio, Bergman, non è riuscito a rimandare il suo inevitabile scacco matto e il miglior cineasta dei miei tempi se n'è andato. Qualche volta ho scherzato dicendo che l'arte era come il cattolicesimo degli intellettuali, forniva il desiderio di intravedere una vita dopo la morte. Ma per come la vedo io, è meglio continuare a vivere nel proprio appartamento che nei cuori e nelle menti del pubblico.
Ed è certo che i film di Bergman continueranno a vivere e a essere visti nei musei e in televisione e venduti in Dvd. Ma, conoscendolo, questa non poteva che essere una magra consolazione e sono sicuro che avrebbe barattato con piacere ognuno dei suoi film per un ulteriore anno di vita. Ciò gli avrebbe dato altri sessanta compleanni per continuare a realizzare film. E non ho dubbi che è così che avrebbe impiegato il tempo guadagnato: facendo ciò che amava fare più di qualsiasi altra cosa, girare dei film. A Bergman piaceva il processo della realizzazione. Gli importava molto meno la risposta che i suoi film suscitavano. Gli faceva piacere che si apprezzasse il suo lavoro, ma una volta mi disse: "Se il mio film non piace, ciò mi crea problemi... per circa 30 secondi". Non gli interessavano i risultati al botteghino, anche se i produttori e i distributori lo chiamavano regolarmente comunicandogli gli incassi dei weekend: quei numeri gli entravano da un orecchio e gli uscivano dall'altro. Diceva: "Verso la metà della settimana, i loro pronostici follemente ottimistici si saranno ridotti a niente". Il plauso della critica gli faceva piacere, ma non ne aveva bisogno nemmeno per un secondo e se è vero che ci teneva che gli spettatori si godessero il suo lavoro, è altrettanto vero che non sempre li aiutava. Eppure, i suoi film più difficili da decifrare ben valevano lo sforzo. Per esempio, quando si capiva che le due donne de Il silenzio sono soltanto due aspetti in lotta di un'unica donna, questo enigmatico film si apriva in tutto il suo fascino. Oppure, avere fresca in mente la filosofia danese prima di vedere Il settimo sigillo o Il volto certamente avrebbe aiutato, ma il talento di Bergman nel raccontare storie era talmente straordinario che riusciva a incantare gli spettatori anche con un materiale difficile. Mi è capitato spesso di sentire dire dalle persone che avevano visto un suo film: "Non ho capito esattamente quello che ho appena visto, ma ogni singolo fotogramma mi ha tenuto aggrappato al bordo della poltrona".
Bergman restava devoto al teatro - era anche un grande regista di teatro - ma il suo lavoro cinematografico non ha tratto idee soltanto da lì; lui ha attinto alla pittura, alla musica, alla letteratura e alla filosofia. Il suo lavoro ha indagato le ansie più profonde degli uomini, dando spesso un inusitato spessore a queste poesie di celluloide. Morte, amore, arte, il silenzio di Dio, la difficoltà dei rapporti umani, l'agonia del dubbio religioso, i matrimoni falliti, l'incapacità delle persone di comunicare tra loro. Ma era una persona calorosa, divertente, con un carattere scherzoso, insicura di fronte ai suoi immensi talenti e che stava bene con le donne. Incontrarlo non voleva dire entrare repentinamente nel tempio creativo di un genio formidabile, oscuro, meditabondo e che incuteva soggezione con profonde e complesse riflessioni, espresse con accento svedese, sullo spaventoso destino dell'uomo in un desolato universo. Tutt'al più poteva uscirsene così: "Woody, ho fatto ancora quello stupido sogno in cui mi presento sul set per girare e non riesco a decidermi su dove collocare la macchina da presa; il fatto è che è una cosa che ormai so fare abbastanza bene e che faccio da anni. Ti capita mai di fare questi sogni ansiosi?" Oppure: "Pensi che sarebbe interessante girare un film dove la cinepresa non si muove neanche di un centimetro mentre gli attori entrano ed escono dall'inquadratura? Oppure farebbe ridere la gente?". Cosa si risponde al telefono a un genio? Non mi pareva che quella fosse una buona idea, ma sono convinto che nelle sue mani sarebbe potuta diventare qualcosa di speciale. Dopotutto, anche il vocabolario da lui inventato per indagare la profondità della psiche degli attori sarebbe apparso ridicolo a chi studiava cinematografia. Nelle scuole di cinema (fui cacciato dalla New York University abbastanza presto quando studiavo per la specializzazione negli anni Cinquanta) l'enfasi era sempre sul movimento. Queste sono immagini in movimento, si insegnava agli studenti, e la macchina da presa dovrebbe muoversi. E i professori avevano ragione. Ma quando Bergman collocava la macchina da presa fissa sul volto di Liv Ullmann o di Bibi Andersson e lì la lasciava e non la spostava e il tempo passava, allora accadeva qualcosa di strano e meraviglioso, dovuto solo alla sua genialità. Lo spettatore era preso dal personaggio e nessuno si annoiava. Al contrario, si era entusiasti.
Bergman, con tutte le sue idiosincrasie e ossessioni filosofiche e religiose, aveva un senso innato per raccontare le storie e quindi era inevitabile che fosse in grado di intrattenerti anche quando nella sua mente era intento a sceneggiare le idee di Nietzsche o di Kierkegaard. Ero solito restare a lungo al telefono con lui. Erano telefonate dall'isola in cui viveva. Non accettavo i suoi inviti per andare a trovarlo perché viaggiare in aereo non mi piaceva. Inoltre non avrei apprezzato un volo su un minuscolo aeroplano con il quale avrei raggiunto un puntino vicino alla Russia per quello che immaginavo sarebbe stato un pranzo a base di yogurt. Parlavamo sempre di film e naturalmente lasciavo parlare lui la maggior parte del tempo, perché sentivo che era un privilegio ascoltare i suoi pensieri e le sue idee. Lui proiettava per sé un film ogni giorno e i film non si stancava mai di vederli. Di ogni tipo, muti e sonori. Per addormentarsi guardava una cassetta di quel tipo di cinema che non lo costringeva a pensare e che lo aiutava a rilassarsi dall'ansietà, qualche volta un film di James Bond. Come tutti i grandi maestri del cinema - Fellini, Antonioni o Buñuel, per esempio - Bergman ha avuto i suoi critici. Ma se si escludono dei lapsus occasionali, i film di questi artisti hanno colpito profondamente milioni di persone in tutto il mondo. In effetti, sono coloro che meglio conoscono il cinema, coloro che lo fanno - registi, sceneggiatori, attori, direttori della fotografia, montatori - a provare il maggior rispetto per il lavoro di Bergman. Poiché per decenni ho cantato le sue lodi tanto entusiasticamente, quando è scomparso mi sono arrivate richieste di commenti o interviste. Come se avessi avuto qualcosa di efficace da aggiungere alla triste notizia, se non proclamare semplicemente la sua grandezza. Mi è stato chiesto quale era stata per me la sua influenza. Come avrebbe potuto influenzarmi? Ho risposto: lui era un genio e io non sono un genio, e la genialità non può essere insegnata. Quando Bergman iniziò a essere conosciuto nelle cineteche di New York come un grande autore cinematografico, io ero un giovane commediografo e un comico di night-club. Si può subire l'influenza di Groucho Marx e di Ingmar Bergman? Una cosa sono riuscito ad apprendere da lui, qualcosa che non dipende dalla genialità e nemmeno dal talento, qualcosa che può essere nei fatti imparata e sviluppata. Parlo di ciò che spesso si chiama con poca precisione etica del lavoro, ma che in realtà è semplice disciplina. Ho imparato dal suo esempio a cercare di fare il meglio possibile in un dato momento, senza cedere all'assurdo mondo dei successi e dei flop, senza rassegnarsi a entrare nello sfavillante ruolo del regista, realizzando invece un film per poi passare a quello successivo. Bergman ha girato nella sua vita circa 60 film, io ne ho girati 38. Se non posso raggiungere la sua qualità, forse potrò avvicinarmi alla sua quantità.
Copyright The New York Times Syndicate. Traduzione di Guiomar Parada
(23 agosto 2007)

lunedì 20 agosto 2007

Presbiopia italiana

Perché la 'ndrangheta, al contrario di Hamas, non trova alcun posto nell'agenda politica? Perché non riesce a diventare né una priorità la distruzione di un'organizzazione criminale capace di controllare un terzo del traffico di cocaina del mondo con profitti per decine di miliardi di euro né un'urgenza il riscatto di una regione dove operano 112 cosche, c'è un'intensità criminale del 27 per cento (pari a una persona su quattro), con un epicentro nel Reggino di 4-5 mila affiliati su una popolazione di 576 mila abitanti?

da G. D'Avanzo, "La politica dell'inazione", Rep. 17/8/07


domenica 12 agosto 2007

La certezza della pena (negli Usa)

In Italia condanne pluriennali si traducono in pochi giorni di carcere (o nessuno). Negli Stati Uniti le cose vanno diversamente. Qui sotto l'articolo di M.Gaggi, Corr. 11/08/07.

Stati Uniti, in galera a 83 anni «Ha ingannato gli azionisti»

John Rigas, l' uomo che ha fondato e diretto per alcuni decenni, fino alla bancarotta del 2002, Adelphia, uno dei più grandi operatori di tv via cavo, entrerà domani nel carcere di Rochester, nel Minnesota, per scontare una pena di 15 anni, dopo che la sentenza emessa tre anni fa è stata recentemente confermata in appello. Lo stesso giorno suo figlio Tim inizierà un periodo di detenzione di 20 anni nel carcere di Elkton, in Ohio. John Rigas, il figlio di immigrati greci che era la perfetta incarnazione del «sogno americano» (da garzone di bottega a imprenditore miliardario) fino a quando non è stato accusato di frode a danno degli azionisti (2,3 miliardi «prestati» da Adelphia alla famiglia senza scriverlo nel bilancio) sta per compiere 83 anni e ha seri problemi di salute: è sordo, vede con un solo occhio ed è in cura per un cancro alla vescica, ora in remissione. Nulla di tutto questo gli risparmierà il carcere: i 15 anni già sono il frutto di uno sconto di pena concesso per l' età avanzata. Come estrema concessione, il giudice ha stabilito che il vecchio imprenditore potrà essere rilasciato dopo i primi due anni di detenzione, ma solo se il medico del carcere certificherà che gli rimangono meno di tre mesi da vivere. La severità della pena è un tratto caratteristico del sistema giudiziario degli Stati Uniti, un Paese con oltre due milioni di detenuti (compresi quelli agli arresti domiciliari): un livello che supera di circa dieci volte non solo l' Italia, ma anche altre nazioni europee come Francia e Germania. E sulla criminalità finanziaria il pugno della giustizia Usa in questi anni è stato particolarmente duro. Bush è considerato il presidente che più ha cercato di piegare il potere giudiziario alla volontà dell' Esecutivo (i giudici nel sistema americano sono eletti o vengono nominati dal governo) ed anche quello che ha maggiormente cercato di favorire il mondo degli affari. Proprio per questo, quando all' inizio del decennio Wall Street fu sconvolta dagli scandali finanziari, molti pensarono che tutto si sarebbe risolto in una serie di processi-farsa. Ma Bush varò una severissima legge di riforma della contabilità - la Sarbanes-Oxley, che ha appena compiuto i cinque anni - e promise che nei tribunali la «corporate America» non avrebbe goduto di un occhio di riguardo. Promessa mantenuta: da Dennis Kozlowski di Tyco a Bernie Ebbers di WorldCom, da Joseph Nacchio di Qwest a Jeffrey Skilling della Enron, le condanne per i crimini dei «colletti bianchi» sono state durissime. L' ultimo della serie è Lord Conrad Black, il «barone» dei giornali, un anziano imprenditore canadese condannato dal tribunale di Chicago per le irregolarità commesse negli Usa dalla Hollinger International: ora rischia fino a 35 anni di carcere. Kenneth Lay, gran capo di Enron e amico personale di Bush (era l' imprenditore più influente del Texas quando l' attuale presidente era governatore dello Stato) ha evitato il carcere solo per un infarto che l' ha ucciso un mese prima dell' inizio della detenzione. Pene severe, «esemplari», volte a dimostrare agli americani che nessuno può comprare l' impunità e ai mercati che l' America rimane il posto più sicuro nel quale investire. Ma anche condanne che spesso, proprio a causa di questi obiettivi, provocano un accanimento eccessivo e lasciano spazi alla giustizia-spettacolo. Il caso dei Rigas sembra essere uno di questi. John, il fondatore, ha sempre rifiutato di dichiararsi colpevole, sostenendo che quelli commessi dall' Adelphia sono stati solo errori e «leggerezze» contabili di cui, prima del caso Enron, nessuno si sarebbe accorto. «Ci siamo trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato», ha detto al quotidiano Usa Today. Andare in carcere senza patteggiare «è il mio modo di dire ai nipoti che non devono vergognarsi della loro famiglia». Una famiglia comunque devastata. Di quello che John Rigas ha costruito in mezzo secolo (cominciò comprando un cinema a Coudersport, in Pennsylvania, nel 1951) non resta più nulla (i pezzi della società andata in bancarotta sono finiti a Time Warner e alla Comcast). E con John sono stati condannati anche i figli: non solo Tim, ma anche Michael che, però, se l' è cavata con dieci mesi di arresti domiciliari. La famiglia ha chiesto che padre e figlio siano detenuti nello stesso luogo, in modo da facilitare le visite, ma nemmeno questo è stato, al momento, concesso. L' ultima speranza di John e Tim è una revisione del processo, visto che il principale testimone d' accusa, l' ex vicepresidente di Adelphia per le attività finanziarie, James Brown, in un recente giudizio civile ha raccontato una «verità» molto diversa da quella da lui presentata nel processo del 2004. Allora Brown aveva dichiarato di aver mentito agli azionisti sulla natura di quel fondo di 2,3 miliardi su pressione dei Rigas. Ora ha invece detto di non aver mai detto il falso alla società di revisione contabile e agli azionisti sulla riclassificazione del debito di Adelphia e sull' operazione di «co-borrowing» dei miliardi finiti alla famiglia. Fin qui il governo - che ha tempo fino al 7 settembre per decidere - non ha accettato la richiesta di celebrare un nuovo processo e del resto, spiegano gli esperti, i giudici federali sono sempre molto restii a riaprire un caso quando un teste, anche importante, cambia a distanza di anni la sua versione dei fatti. Nessuno pensa che i Rigas siano stati vittima di un errore giudiziario, ma certo la volontà dell' Amministrazione di usare il caso come un esempio e un monito per tutti è costata loro cara: il vecchio John ricorda che nel luglio del 2002, quando fu emesso il mandato di cattura, i Rigas offrirono di consegnarsi in un commissariato, evitando la «gogna» mediatica. Furono invece arrestati e ammanettati al centro di New York davanti alle telecamere di tutte le reti americane. «Volevano lo spettacolo», commenta il capostipite che oggi dice di sentirsi come Gary Cooper nella scena finale di Mezzogiorno di fuoco: solo contro tutti. In effetti gli amici del potente tycoon di un tempo sono tutti svaniti. Solo nelle chiese della sua Coudersport pregano per lui.

giovedì 9 agosto 2007

Morto a 16 anni durante uno "stage" in cantiere

Un giovane operaio edile di soli 16 anni è morto a San Candido, in Alto Adige, per il crollo della volta di una cantina in cui stava lavorando. La vittima è un ragazzo del posto che era appena sceso nella cantina di un vecchio edificio dove erano in corso lavori di ristrutturazione.

L'incidente è avvenuto in un vecchio edificio del centro storico della cittadina, in questo periodo affollatissima di turisti. Il ragazzo - Christian Schwingshackl, di San Martino in val Casies, uno studente che d'estate lavorava come stagionale - era appena sceso nella cantina quando sulla volta c'è stato un crollo e si sono staccati grossi sassi che l'hanno colpito alla testa. Subito sono scattati i soccorsi e sul posto è arrivato in ambulanza un medico che lo ha soccorso facendolo subito dopo atto ricoverare nell'ospedale cittadino. Le condizioni del giovane si sono però presto aggravate e così è stato deciso di trasferirlo in elicottero al più attrezzato ospedale di Brunico. Ma il brutto tempo, con nuvole e pioggia, ha impedito all'elicottero di alzarsi in volo. Così il ragazzo è stato trasportato in ambulanza sino a Brunico, ad una quarantina di chilometri da San Candido. Ma quando vi è arrivato per lui non c'era più niente da fare.


da unita.it

domenica 5 agosto 2007

Lo Stato italiano vende missili alla Libia attraverso Finmeccanica

Tutti i giornali italiani si sono scandalizzati perchè la Francia di Sarkozy ha venduto missili alla Libia. Peccato che la società Mbda che ha ottenuto il contratto da 168 milioni di euro è una joint venture fra la francese Eads, la britannica Bae Systems e, pensate un po' chi, l'italianissima Finmeccanica (che possiede il 25% del capitale). Finmeccanica a sua volta è al 32,45% dello Stato attraverso il ministero dell'economia e delle finanze. Almeno si evitassero le prediche ai francesi.

ps: la notizia è stata rivelata da Le Monde. Cosa sarebbe successo se Finmeccanica avesse avuto il 100% di Mbda? Viene il sospetto che non si sarebbe saputo nulla.

Se «Sviluppo Italia» è «Sviluppo Parenti»

In Calabria l’agenzia conta 34 assunti tra figli, fratelli e consanguinei. Di destra e di sinistra

di Gian Antonio Stella, Corr. 4/8/07

«Sviluppo Parenti»: tanto varrebbe chiamarla così, la società Sviluppo Italia. Almeno in Calabria. Tra i dipendenti di quella che doveva essere una specie di nuova Iri «ma più moderna, agile ed efficiente» per rilanciare il Sud attirando investimenti esteri, figurano infatti decine di figli, cognati, sorelle, cugini e parenti vari di politici, sindacalisti, giudici. Assunti senza concorso, per chiamata diretta. E decisi a sostenere bellicosamente d'essere stati assunti per brillanti meriti professionali.
Che la società, al di là della pomposità manageriale della «mission» dichiarata («L’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa è impegnata nella ripresa di competitività del Paese, in particolare del Mezzogiorno») sia diventata un carrozzone non è una novità. Lo sostiene il Sole 24 Ore che ne ha chiesto la chiusura perché «sbaraccare sarebbe un segnale di svolta più forte di qualunque riforma annunciata». E lo ha ammesso perfino l’amministratore delegato Domenico Arcuri: «Ho ereditato una farsa, una società con una struttura così elefantiaca che al cospetto la General Motors si intimorisce». Basti ricordare che, in attesa del drastico riordino annunciato, il gruppo è oggi un arcipelago di 181 società dotato di 492 amministratori, in larga parte legatissimi alla politica. Nelle sole «controllate» siedono 168 consiglieri di amministrazione, 93 sindaci e 78 membri degli organismi di vigilanza per un totale di 339 persone. Quanto ai dipendenti, sono 1.719, organizzati in maniera folle: il 63% negli «staff» e solo il 37% nelle «linee», da dove vengono i ricavi. Per non parlare delle gerarchie che, come ha scritto sul quotidiano economico Nicoletta Picchio riprendendo la denuncia dello stesso Arcuri, sono eccentriche: «Un dirigente governa due quadri, tutti e tre comandano 5 impiegati».
C’è poi da stupirsi se, stando ai dati Luiss Lab, Sviluppo Italia ha attratto investimenti stranieri nel triennio 2003-2005 per un totale di 297 milioni di euro contro i 760 veicolati in un solo anno, nel 2005, dalla omologa di Dublino che potremmo chiamare «Sviluppo Irlanda»? Dentro un quadro come questo, che ha spinto i vertici a giurare su una svolta netta con una riduzione del personale degli «staff» dal 63 al 20 per cento, un taglio di 601 dipendenti e una radicale ristrutturazione delle strutture periferiche, la Calabria merita una messa a fuoco. Se la Sicilia ha due sedi a Palermo e Catania, la Puglia una più due «incubatori» e la Campania ancora una più due «incubatori», l’assai meno popolata Calabria ne ha cinque. Quattro sedi a Cosenza, Crotone, Reggio e Vibo Valentia più un «incubatore» a Catanzaro. Come mai? Tutto «merito», dicono affettuosi gli amici e critici gli avversari, di quello che è stato il patriarca calabrese della società: Francesco Samengo. La cui biografia merita qualche riga perché rappresenta plasticamente le contraddizioni della macchina pubblica. Venti anni fa venne infatti passato allo spiedo dagli ispettori mandati dall’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi a capire come diavolo avesse fatto la «Carical» (Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania), a lungo feudo della Democrazia cristiana e pilastro d’una politica spendacciona e clientelare, a inabissarsi in una voragine di mille miliardi di debiti. Saltò fuori di tutto.
Mutui accordati per pagare assegni protestati. Altri accordati accendendo due o tre ipoteche sulla medesima casa. Conti in rosso da incubo tollerati in base a «una buona impressione soggettiva ». Fidi da tre miliardi di lire dati per «finanziamento campagna pesche e pomodori » a un tipo che assicurava (e nessuno controllò se fosse vero) che avrebbe avuto un contributo europeo. Prestiti astronomici concessi «in attesa incasso contributo della Regione Calabria» nonostante fosse stata accertata «l’inesistenza della contabilità interna» del cliente. Una gestione scellerata. Che sfociò in un tormentone processuale evaporato tra rinvii e assoluzioni, rinvii e prescrizioni. E in una causa civile, con richiesta di danni per 80 milioni di euro, contro vari amministratori tra i quali appunto Samengo. Allora ras della banca a Cassano Jonico. Dove una casalinga (Angelina Lione) era arrivata ad avere un mutuo dando in garanzia «costruzioni abusive» e a ottenere finanziamenti vari, secondo Bankitalia, «denunciando un patrimonio netto di 4,3 miliardi esistente solo nella sua mente». Altri, in Paesi seri, sarebbero stati spazzati via. Samengo no. E dopo qualche anno di apnea, grazie all’appoggio dell’Udc («io non ne so niente di niente», giurò Giulio Tremonti) si ritrovò nel 2002 promosso ai vertici nazionali di Sviluppo Italia da quello stesso Stato che da lui avanzava i soldi della Carical. Bene.
Ricostruito il quadro, il giornale La Provincia Cosentina ha sparato nei giorni scorsi a tutta pagina un’inchiesta di Gabriele Carchidi. Con un elenco di 34 «assunzioni clientelari riconducibili ai politici di destra e sinistra, uomini di legge e dirigenti ». Figli, nipoti, cognati, cugini... Ed ecco Nerina Pujia, figlia del potente ex parlamentare della Dc Carmelo. Carlo Caligiuri, figlio dell’ex consigliere regionale diessino Enzo. Cecilia Rhodio, figlia dell’ex presidente regionale democristiano Guido. Paola Santelli, sorella dell’ex sottosegretario alla Giustizia e oggi deputata azzurra Jole. Marco Aloise, candidato sindaco per An a Paola nel 2003. Luigi Camo, figlio dell’ex senatore ulivista Geppino, oggi presidente della Sorical. Giovanna Campanaro, nipote dell’ex deputata democristiana e oggi «loierista» Annamaria Nucci (ora assessore comunale a Cosenza) e dell’ex assessore regionale Giampaolo Chiappetta.
E poi ancora Andrea Costabile, nipote dell’ex assessore regionale e attuale senatore Udc Gino Trematerra. Ed Emilio De Bartolo, assessore comunale diessino di Rende, figlio dell’ex assessore ed ex preside della Facoltà di Economia all’Unical Giuseppe. E Giada Fedele, moglie del casiniano vicepresidente del Consiglio regionale Roberto Occhiuto. E Sandro Mazzuca, assunto con la moglie Fausta D’Ambrosio per la felicità dello zio acquisito Pino Gentile, consigliere regionale azzurro. E Antonio Mingrone, nipote dell’ex deputato forzista G. Battista Caligiuri. EGiovanna Perfetti, figlia dell’ex consigliere regionale buttiglioniano Pasqualino. E via così. Qualcuno, seccato, s’è precipitato a precisare. Paola Santelli assicura che l’assunzione è precedente all’elezione della sorella Jole in Parlamento. Il senatore mussiano Nuccio Iovene che suo fratello Daniele lavorava da anni «alla Società per l’imprenditoria giovanile» assorbita da Sviluppo Italia. Altri hanno fatto spallucce. Macché scandalo, così fan tutti...
Gian Antonio Stella

venerdì 3 agosto 2007

Morire sul lavoro a 26 anni, schiacciati da un tubo di 3 tonnellate

Domenico Occhinegro è morto a 26 anni, schiacciato da un tubo di tre tonnellate nello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto. Dopo anni di precariato, era stato da poco assunto. Tra meno di un anno si sarebbe sposato.

All'Ilva hanno perso la vita in 40 dal 1993 a oggi: 6 morti e decine di feriti solo negli ultimi due anni.

Il gruppo Riva, che possiede l'Ilva, ha chiuso il 2006 con i migliori dati di bilancio della sua storia ultracinquantennale: gli utili hanno toccato 696,4 milioni di euro, in crescita del 44% sull'anno precedente (484,3 milioni di euro) mentre il fatturato consolidato netto ha raggiunto 9.454,9 milioni di euro, l'11% in più rispetto al 2005, quando erano stati realizzati ricavi per 8.535,1 milioni.

giovedì 2 agosto 2007

"Eternit, fu strage dolosa". Per 2.969 persone

La Procura di Torino: i vertici conoscevano i rischi per la salute dei lavoratori

Duemilanovecentosessantanove. A scriverlo in lettere, in una sola riga, concentra l’impatto grafico delle 105 pagine dell’avviso di conclusione delle indagini riempite di tutti quei nomi e cognomi di ex operai Eternit, delle storie di morte o malattia di ciascuno. Per mesotelioma pleurico o al peritoneo esplosi nei loro corpi 20-30 anni dopo aver respirato in fabbrica fibre di crocidolite, amianto. Lavorate senza adeguata protezione per la salute di tutti negli stabilimenti italiani di Cavagnolo (provincia di Torino), Casale Monferrato, Rubiera (nei pressi di Reggio Emilia) e di Bagnoli.Quel «tutti» è importante: la polvere d’amianto ha ucciso anche fuori delle fabbriche. Nell’atto giudiziario compaiono anche 482 persone di Casale che non varcarono mai i cancelli Eternit. Casale è anche la comunità che più si è organizzata contro questa silenziosa strage degli innocenti: associazioni, lotte, denunce, leggi per risanare i tetti e le strade di polvere d’amianto. Altrove, come a Bagnoli, sono stati i collaboratori del procuratore aggiunto Raffaele Guariniello a fare un lavoro immane di censimento. Per riuscire a riscontrare, solo fra gli ex dipendenti Eternit in provincia di Napoli, 541 parti lese nel prossimo processo.Impressionante, tanto che uno degli avvocati che ha ricevuto l’atto giudiziario, Astolfo Di Amato, difensore di uno dei due indagati superstiti a fine inchiesta, dichiara a caldo: «La lettura del capo di imputazione determina una sensazione di dolore per il rispetto che si deve a tanta sofferenza». Il capo di imputazione svela gli sviluppi della più grande inchiesta aperta in Europa e ora pronta per il processo: due indagati, Stephan Schmidheiny (la posizione del fratello Thomas è stata stralciata) e Jean-Louis Marie Ghislain de Cartier de Marchienne. L’uno svizzero, l’altro belga, accusati di disastro doloso e omissione dolosa di norme antinfortunistiche nella «loro qualità - scrivono nell’atto Guariniello e i pm Sara Panelli e Gianfranco Colace - di effettivi responsabili della gestione della società».Si alternarono al vertice della multinazionale dei prodotti di fibrocemento: tettoie, tubi, manufatti d’uso comune rivestiti d’amianto. In particolare Stephan Schmidheiny, terza generazione della famiglia, è tuttora un personaggio: 60 anni, ha ceduto(almeno formalmente) quanto restava dell’impero Eternit (20 mila dipendenti sparsi in 20 stabilimenti nel mondo). E si è riconvertito allo sviluppo eco-compatibile. Come industriale: società di forestazione in Sudamerica. E guru: conferenze, libri (in Italia l’ha pubblicato Il Mulino). Il suo sito internet lo ritrae sorridente fra altri conferenzieri. E’ stato consigliere di Clinton su questi temi, ha parlato all’Onu e in Vaticano.L’avvocato Di Amato, suo legale, sostiene: «Il mio cliente è un obiettivo sbagliato. Non ha mai gestito gli stabilimenti italiani. E ha sempre dato impulso a misure di sicurezza nell’ambito di tutto il gruppo, dando corso a importantissimi investimenti». Guariniello e i suoi pm sostengono l’esatto contrario sulla base di una minuziosa ricostruzione di documenti Eternit che comprendono anche lettere di Stephan Schmidheiny agli amministratori del gruppo. Con le disposizioni sull’organizzazione del lavoro, sui sistemi di protezione della salute dei lavoratori, se eliminare o no l’amianto dal ciclo di produzione. Schmidheiny è stato al vertice della multinazionale dal 1972 sino a dopo la chiusura degli stabilimenti italiani (inizio anni 80). In questi tre anni di indagini i tanti investigatori e consulenti tecnici messi in campo dalla procura torinese, dopo aver accertato il primo caso che radicava la competenza territoriale dell’inchiesta qui, hanno rintracciato e convinto a testimoniare molti ex manager Eternit. Una mano ha dato loro l’associazione delle vittime d’amianto di Casale con i suoi legali. Con loro era stata aperta una trattativa per il risarcimento dei danni: a Schmidheiny, tra i più ricchi al mondo secondo la rivista americana Forbes, era stata effettivamente chiesta una somma superiore ai 100 milioni di euro. Il suo avvocato riconosce la «lealtà» degli avversari. Ma sul risarcimento è ancora notte.

Alberto Gaino, Stampa, 2/8/07