È domenica, il 26 settembre del 1976. Sono passati solo due mesi dal disastro di Seveso, in Lombardia. Gli operai dello stabilimento Enichem di Manfredonia sono al lavoro quando la colonna di lavaggio dell'anidride carbonica dell'impianto di produzione dell'ammoniaca scoppia. Un boato, poi dieci tonnellate di anidride arseniosa, una sostanza altamente cancerogena, fuoriescono dall’impianto. I dirigenti mandano immediatamente gli operai a riparare i danni. Senza alcuna protezione. Concluse le operazioni di bonifica, tutto a posto, si può tornare al lavoro. Le analisi del sangue di alcuni lavoratori danno valori sballati. Ma per l’azienda, e per qualche medico compiacente, la causa «sta nei troppi crostacei mangiati dai lavoratori». Negli anni a venire, sono almeno 22 i lavoratori che si ammalano di cancro. E diciassette di loro sono già morti.
La storia dell’Enichem a Manfredonia comincia nel 1970. Una manna dal cielo per quel fazzoletto di Puglia che è il Gargano, una terra dove il bosco della foresta Umbra al centro e le scogliere a picco sul mare non sono mai state terra fertile per gli investimenti elle grandi industrie. Ma ora è arrivata l’Eni, a sfamare centinaia di disoccupati foggiani. Tra di loro c’è anche Nicola Lo Vecchio un operaio che ha fatto carriera fino a diventare capoturno. All’inizio degli anni Novanta si ammala di cancro ai polmoni, anche se non ha mai toccato una sigaretta in vita sua. Ha un sospetto, e la voglia di capire lo assale. È così che Nicola comincia a ricostruire il ciclo di produzione interno al petrolchimico. Gli dà una mano Maurizio Portaluri, un oncologo associato a Medicina Democratica. Nel 1996 hanno abbastanza elementi per presentare un esposto contro l’azienda. È lo stesso anno in cui l’Enichem cessa le attività nello stabilimento pugliese. Nicola Lo Vecchio muore l’anno dopo, ma il processo ormai è partito.
Legambiente, il Wwf, un'associazione ambientalista locale Bianca Lancia, la Regione Puglia, il ministero dell'Ambiente e i comuni di Monte Sant'Angelo, Manfredonia e Mattinata, («poi ritiratisi – secondo quanto riferito da Legambiente – per ricevere un indennizzo»), si costituiscono parte civile perché condividono la tesi dell'accusa, secondo la quale «la mancata adozione di provvedimenti precauzionali a tutela degli operai impiegati per la rimozione dei materiali contaminati e le riparazioni degli impianti, ne avrebbe determinato una grave esposizione con conseguenze anche letali negli anni a seguire».
All’indomani della sentenza, è forte l’amaro in bocca. «L'inquinamento a Manfredonia ha ucciso, questo è un dato di fatto inoppugnabile – dichiara a denti stretti il presidente di Legambiente, Roberto Della Seta – e per vederlo affermato ci impegneremo con ogni mezzo possibile». «Riteniamo importante – aggiunge Gianfranco Botte, responsabile pugliese del Wwf – acquisire le motivazioni della sentenza, confidando in una eventuale impugnazione da parte della pubblica accusa».
Oggi, dell’Enichem nel golfo di Manfredonia rimane solo un pontile lungo chilometri che si staglia nell’Adriatico. E una sentenza che assolve tutti.
da unità.it
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento