Unicredit ha recuperato il 124% di quanto aveva investito in Parmalat. Ha ricevuto cioè il 24% in più di quanto aveva dato. Al contrario di migliaia di clienti che dovranno accontentarsi degli spiccioli, o di nulla. E’ andata bene a quasi tutte le banche, non solo a Unicredit: in media hanno riportato indietro il 93% delle somme impiegate. Grazie a 4 fattori: l’andamento del titolo in Borsa, i recovery ratio, le commissioni, i credit default swap. Queste cose le ha scritte Giuseppe Oddo del Sole, riprendendo un documento che il commissario straordinario Bondi ha inviato al Tribunale di Milano. Ieri Profumo, ad di Unicredit, ha detto che «un giornale serio non avrebbe pubblicato quella pagina. Affermare che se si ricevono degli interessi a fronte di un'esposizione si ha un recupero, è tecnicamente sbagliato». Non è vero: Bondi (non Oddo) ha fatto il conto delle entrate e delle uscite (quello che interessa migliaia di investitori), e non si vede perché gli interessi incassati non debbano far parte delle entrate. Si possono fare altri tipi di conteggi: ma se si fa quello delle entrate e delle uscite, Bondi ha ragione.
Ora, il Sole può essere serio o meno. Il problema è che l’articolo di Oddo era valido, documentato e interessava migliaia di persone (al contrario delle mille pagine per la 500).
Se Profumo, l’uomo più potente d’Italia, lascia queste dichiarazioni, c’è da preoccuparsi. Cosa sarà della prossima inchiesta sulle banche? I giornali, già timidi di loro, si lasceranno condizionare? E soprattutto: i lettori potranno essere correttamente informati?
"Parmalat, le banche incassano" di Giuseppe Oddo, Sole 5/7/07
Le grandi banche sono uscite indenni dal dissesto della Parmalat. Anzi, per alcune di esse il crack è stato un lauto affare. Se i principali istituti che avevano finanziato Calisto Tanzi hanno mediamente portato a casa il 93% della loro esposizione verso Parmalat, per alcuni di essi l'incasso ha abbondantemente superato il 100% del credito.Questi dati figurano in una tabella che il commissario straordinario, Enrico Bondi, ha spedito di recente al Tribunale di Milano. La tabella - che pubblichiamo in basso e che integra la relazione sulle cause dell'insolvenza - è un confronto tra i crediti delle banche così come apparivano nel giorno del default e gli importi da esse recuperati nel corso degli anni; importi comprensivi dei proventi percepiti prima del crack, dei "collaterali" incassati al default e del valore delle azioni Parmalat ottenute con la conversione dei crediti. Il risultato di questi calcoli è sconvolgente. Ed è destinato a sollevare nuove polemiche tra il popolo dei bondholders.Prendiamo il caso di Deutsche Bank: l'istituto tedesco, che il 27 dicembre 2003, alla dichiarazione d'insolvenza della Parmalat, aveva crediti per più di 154 milioni di euro, è uscito dal gruppo con quasi 217 milioni: il 40% in più del credito originario. Deutsche Bank aveva curato parecchi prestiti obbligazionari di Collecchio, tra cui l'emissione "fantasma" del 13 settembre 2003, cosiddetta perché annunciata e annullata nello stesso giorno; e aveva lasciato correre le indiscrezioni di Borsa che le attribuivano, a pochi mesi dal crack, il 5% della Parmalat, con l'effetto di rassicurare gli investitori mentre l'azienda camminava sull'orlo del baratro. La Parmalat è stata un affare anche per UniCredit e Capitalia, che oggi costituiscono un'unica entità aziendale: le due banche hanno recuperato dalla Parmalat, nell'ordine, il 124% e il 123% dei rispettivi crediti, vale a dire 212 milioni e 533 milioni. Il Monte dei Paschi e l'Ubs sono invece usciti alla pari: il primo ha recuperato il 102% del credito (113 milioni contro i 110 del default) e il secondo il 99% (451 contro 455).Ma perché i crediti delle banche sono aumentati di valore? Per almeno quattro motivi. Primo, perché le quotazioni di Borsa della Parmalat sono passate da 1 a 3 euro per il buon andamento economico della società, ma soprattutto per le aspettative sulle revocatorie e sulle cause per danni intentate da Bondi negli Stati Uniti. Secondo, perché i recovery ratio, i criteri di conversione adottati dalla procedura per la trasformazione dei crediti in azioni, hanno penalizzato certi creditori e ne hanno favorito altri. Alla Eurolat, per esempio, era associato un recovery ratio del 100%, tale per cui ogni suo creditore ha ricevuto, all'atto del concordato, una quota di azioni Parmalat pari all'intero ammontare del credito. È questo il caso di Capitalia, uscita proprio nei giorni scorsi dal capitale della Parmalat con un notevole guadagno. È questo anche il caso di alcuni fornitori di latte di Collecchio, che hanno visto triplicare il loro credito. Una cosa mai vista. Il terzo motivo che ha fatto lievitare i crediti delle banche risiede nelle commissioni e nei proventi vari strappati alla Parmalat nel corso degli anni. Dei 14,1 miliardi di risorse finanzarie assorbite dal gruppo nei cinque anni prima del crack - scrive il commissario governativo nella sua relazione sull'insolvenza - 13,2 miliardi erano stati procurati, in maniera diretta o indiretta, dal sistema bancario italiano e internazionale, e una parte assai consistente di queste risorse, 5,3 miliardi, se n'era andata in oneri finanziari e commissioni sul debito. In particolare, 2,8 miliardi erano finiti alle banche e 2,5 erano serviti a remunerare le obbligazioni. Conclusione: la Parmalat è stata una mucca da mungere. Tra proventi e commissioni percepiti negli annni prima del default, UniCredit ha incassato in totale quasi 107 milioni di euro, Capitalia 267, Sanpaolo-Imi 104 e Citibank 182.Quarto motivo: le banche avevano assicurato i propri crediti. Ubs, Citibank, Deutsche Bank, Bank Of America, Crédit Suisse avevano stipulato dei credit default swap, il più diffuso tra i contratti derivati di credito, che permette di comprare o vendere protezione contro il rischio d'insolvenza di un emittente di obbligazioni. Si presume che i credit defaul swap liquidati sul mercato internazionale all'atto dell'insolvenza della Parmalat ammontassero a 7 miliardi di euro: una cifra spaventosa. Diciamo si presume, perché era stata fatta richiesta, a tutte le autorità del mondo, dei tabulati di scambio di questi contratti derivati; richiesta caduta nel vuoto. Parallelamente altre banche avevano costituito dei cash collateral, ossia garazie in denaro versate dalla Parmalat, che la banca avrebbe escusso in caso di default. E così è stato per Bank of America, che la notte del 23 dicembre 2003 ha incassato puntualmente 148,1 milioni di euro di cash collateral che erano stati costituiti in precedenza dalla Parmalat: operazione ritenuta legittima dalla banca creditrice, ma condannata dai magistrati e dallo stesso Bondi come esempio di condotta delittuosa.Peraltro, tra gli incassi di Bank of America Bondi ha conteggiato, anche, gli oltre 50 milioni distratti da Luca Sala e ritrovati su alcuni conti esteri del manager in servizio presso la consociata italiana di BofA.La banca che sta peggio in assoluto, tra le undici esaminate da Bondi, è JP Morgan Chase, tuttora azionista di Parmalat accanto a Intesa e Sanpaolo-Imi. Di recente JP Morgan ha accresciuto la partecipazione al 4,7%, anche se può contare, in questo momento, su un recupero potenziale pari al 42% del suo credito.Oggi più che mai si può sostenere che i danneggiati del crack furono le decine di migliaia di clienti bancari che sottoscrissero i bond Parmalat agli sportelli e che svendettero i titoli nel momento del panico, precludendosi la partecipazione al concordato. Sono stimati in 162mila gli ex obbligazionisti oggi azionisti della nuova Parmalat. Questi risparmiatori potranno sperare in un recupero sostanziale del loro credito se Bondi uscirà vittorioso dalle azioni revocatorie e risarciatorie avviate contro banche e società di revisione, per svariati miliardi di euro. Gli altri hanno perso tutto, irrimediabilmente.
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